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Titolo: Valéry, o del peso della gloria

Autore: Lionello Fiumi

Data: 1932-10-12

Identificatore: 1932_448

Testo: INCONTRI
Valéry, o del peso della gloria
Parigi, - ottobre
Un italianisant, René Dollot, ha pubblicato tempo fa in una rivista dotta uno studio minuzioso sul nonno di Paul Valéry, che era italiano, e di buona lega, poichè, figlio di Trieste, fu console del Re di Sardegna a Cette, e ardentemente sognò liberata dall'aquila bicipite la città di San Giusto. Questa indagine, sulla genealogia italiana del più celebre poeta che vanti la Francia d’oggi (designato ora quale probabile vincitore del premio Nobel 1932 per la letteratura), mi fa riandar colla memoria alla prima conversazione ch’egli mi concesse, nel suo appartamento di rue de Villejust, una domenica mattina in cui un amico, fedele di Valéry dai giorni dell’oscura vigilia, mi fece varcar la soglia famosa. Fummo introdotti in un salotto dignitosamente borghese, cui solo qualche tela impressionista del periodo eroico toglieva l’impersonalità che fa identici tutti i salotti borghesi di Parigi — se non del mondo — e, poco dopo, da una porta d’angolo venne fuori il poeta. Usciva di malattia, e si scusò di presentarsi familiarmente in veste da camera. Mentre scambiava col mio amico i preamboli d’obbligo fra due che non si rivedono da un pezzo, io approfittavo per osservarlo.
Era bene la faccia magra, dai rilievi d’acquaforte, scavata di pozze nelle guance e arata di rughe nella fronte, come se le si fosse rivoltato contro il bulino stesso con cui Valéry acquafortista aveva ritratto — Narciso del rame — la sua propria effige.
Erano bene gli occhi tondi e grigi di cui avevan parlato i suoi descrittori.
Ma ciò che non gli conoscevo era quell’aria stanca, quelle spalle oppresse da un peso che non vedevo e che non poteva essere, no, la vecchiaia, in, un uomo non ancora giunto alla sessantina. Curvo, nella vestaglia tabacco, discorreva con una sua voce veloce e bassa, come il borbottìo d’un soliloquio.
Rivoltosi a me, parlò con un certo compiacimento delle sue origini italiane, di radici che venivano dalla terra di Petrarca e di Leonardo. Sua madre, figlia del patriotta triestino Giulio Grassi, figlioccia dell’ammiraglio Bandiera, era andata sposa ad un Barthélemy Valéry, còrso di Bastia, nel 1861, quando il Grassi, in disgrazia col governo austriaco, era capitato a Cette — oggi si scrive Sète — console di Vittorio Emanuele II. Là, appunto, nacque, dieci anni dopo, il poeta. Genova, dove aveva trascorso parecchie stagioni della sua infanzia e dell’adolescenza, per via della madre, gli restava impressa nella luce ferma e trasfiguratrice che sempre dura sulle cose che attorniarono i nostri sguardi bambini. M’accennò a certi laghetti, o pozze cupe, ch’era la sua festa potercisi recare.
Io evocavo, tra me e me, il Valéry fanciullo per le strade di Genova, e mi piaceva divinare un’influenza — a voi, esegeti, uno spunto inedito per uno studio quasi psicanalitico — di quella città tutta a piani sovrapposti, dove il volume parla e s’impone allo spirito, sul formarsi d’una coscienza architettonica nello scrittore di Eupalinos e nel costruttore di liriche a guisa di templi con le « douces colonnes, aux chapeaux garnis de jour ».
Dopo quella domenica, ebbi occasione di trovarmi a contatto di Paul Valéry in altri ambienti, con altra gente che pendeva dal suo labbro. Vidi un Valéry mondano, ih uno di quei grandi salons littéraires che sono palle di platino al piede delle celebrità parigine. I lacchè introducevano nella immensa sala, attutita di tappeti e di arazzi, nomi chiari di giovani e vecchie reputazioni: profili noti dell’Olimpo letterario si spezzavano in due davanti alla bionda signora del luogo, pel baciamano. Ma c’era impazienza, quel pomeriggio, al tè della Duchessa de La Rochefoucauld, tra i gruppi e i gruppetti che s’andavan formando, tre sillabe facevano spola, come un’aspettazione: Valéry.
Apparve, e tutte le conversazioni caddero, tutti gli occhi si piantaron su di lui. Fu una subdola gara a chi riuscisse ad accaparrarsi un pezzo di Valéry per qualche minuto, e m'accorsi che, mentre già era circondato da un crocchio di adulatori, lo spiavano a distanza, calcolando le mosse strategiche, per accerchiarlo al momento propizio. Che voleva, dopo tutto, quella turba, se non strusciarglisi addosso un istante, quasi che dovesse restarle sui panni un riflesso della gloria? Gustava veramente, il poeta, nel suo intimo più segreto, l’ebbrezza equivoca di suscitare tanto alone di curiosità?
A me veniva in mente, piuttosto, ciò che aveva confidato ad un amico mio, una volta che questi lo aveva incontrato, con una piega amara alla bocca, in Avenue des Champs Elysées: la sua stanchezza umana di forzato della gloria; questo triste scotto della celebrità; questo aver da concedersi senza requie alla muta dei postulanti; questo dovere arrendersi alle mille e una esigenze di Parigi, piovra dai mille tentacoli senza pietà per le fame che essa stessa si foggia. E mentre da una portiera uno stratega del salotto, ragno sulla tela, guatava in attesa d’acchiapparlo al varco con un perentorio Cher Maître, io riflettevo alla sorte di questo scrittore giunto tardi alla gloria, per sentirla abbattersi tutta d’un colpo, macigno, sulle spalle non allenate. Vedevo, ora sì, come una forma tangibile, il peso che teneva curvata quella schiena, e che non avevo capito" le prime volte.
Quando uscii sulla Place des Etats-Unis, dove dà il palazzo della Duchessa, e, tra i civici addobbi del verde, mi si parò davanti la statua di Giorgio Washington, sebbene non c’entrasse proprio nulla, un’associazione d’idee mi condusse a concludere sulla felicità, per i grandi uomini, di non essere, alfine, che un marmo assente, cui, sulle spalle, la gloria non possa più pesare.
Lionello Fiumi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.10.32

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Citazione: Lionello Fiumi, “Valéry,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/704.