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Titolo: Un baro

Autore: Adriano Grego

Data: 1932-09-14

Identificatore: 1932_405

Testo: Un baro
Io avevo un amico che barava al gioco: non dimenticherò mai quella sera in cui lo vidi svergognare dinanzi a cinque persone che lo guardavano come se fosse stato il crocefissore di Cristo. Ognuno di quelli forse scopriva una spiegazione umana alla propria sfortuna ed era felice d’aver trovato un nemico in carne ed ossa da percuotere e da odiare. E poi, al cospetto dei ladri, rinasceva quell’orgoglio dell’onestà che nella vita è difficile conservare gagliardo se non vivendo lontano dai negozi, fra terre e mura ereditate. Quella notte ci sentivamo tutti uomini dabbene e il baro fu cacciato di sala.
* * *
Il baro era corpacciuto e faceto. Quando parlava coi camerieri aveva un tono confidenziale e si divertiva a raccontar fatti di casa e burle e risposte salaci che, a suo dire, lasciavano l’avversario scornato o istupidito dalla maraviglia. Gli piacevano le storie di gioco e non le storie di donne, per le quali aveva conservato un pudore scontroso, una sorta di nativa paura. Fra compagnie numerose e rumorose si trovava come nel proprio elemento e rideva al momento giusto e sapeva portare dovunque una contagiosa effervescenza. Ma poi gli piacevano i colloqui appartati, da uomo a uomo, e allora s’abbandonava alle confessioni, narrava delle proprie sofferenze e di quando s’era trovato in America con venticinque lire in tasca, solo come un cane, e dell’amicizia che è sulla terra l’unico bene durevole. In quei momenti gli luccicavano gli occhi, si premeva le tempie colle mani, si alzava, si sedeva, rivelava un’inquietudine dolorosa che sempre finiva col fargli conquistare la fiducia del compagno. Che recitasse un poco è probabile: ma certo, dopo i primi momenti, egli si sentiva preso di pietà per se stesso e si trovava miserabile e per se stesso provava una tenerezza struggente.
Quando poi si scuoteva da quelle crisi pareva più del solito disposto a far l’allegro compagno. Pensava probabilmente a qualche frase patetica e convenzionale che applicava a se medesimo. Per esempio: « ridere col pianto nel cuore », oppure « bisogna premersi il cuore colle mani ». * * *
Quella notte, nella saletta del circolo, eravamo in sei persone: cinque attorno al tavolo ed io poco discosto, vicino all’amico. Si giocava a « poker » ormai da tre ore, ma nessuno pareva provasse noia e nessuno aveva ancora guardato l’orologio. Avrebbero visto spuntare il sole, sarebbero andati a casa lentamente, avrebbero incontrato il garzone del lattaio e i carretti delle verdure ricolmi. Il mio amico era un bel giocatore: si fingeva distratto, ma era attento come una bestia da preda. Faceva dei rilanci bizzarri. Trenta — diceva uno. Novanta — ribatteva un altro. Centonovantasette — rilanciava l’amico, e spesso quella frazione irrisoria aveva la virtù di arrestare il gioco e di indurre alla fuga. Vincitori e vinti avevano già le facce stanche, si sorridevano a tratti con certi sorrisi di maniera, come per un rito; bevevano, fumavano, ripetevano con intenzione vecchie formule di gioco: « Mi mancava una donna » -« Sto bene come sto » - « Questa volta vi faccio andare coi treni popolari ».
C’erano dei momenti in cui tutti maneggiavano le carte, gettavano al centro i gettoni, battevano colle dita dei brevi colpi sul tavolo, senza parlare. Così davano l’idea di essere degli assortiti artigiani intenti al loro mestiere. Più aridi, dentro: ma la fatica di chi guadagna danaro offre sempre lo stesso spettacolo di pena, antico peccato originale che si viene scontando.
Entrò il cameriere con un vassoio. Allora l’amico diventò allegro e volle fare una mescolanza di liquori e di caffè. —- Giuseppe, — disse al cameriere — tu mi porti fortuna.
Bevve colla cannuccia quell’intruglio e poi, in ritardo, sgranò le carte. Parve più distratto del solito. Si spostò a sinistra, cosicché io non potei più seguire il suo gioco che con fatica. Ma mi parve — appena un fuggevole sospetto — di vedere un re di picche, scartato poc’anzi, ancora tra le sue dita. Il mio amico vinse il « piatto ».
Fecero ancora due giri, tranquilli. Al terzo giro un giocatore — era il più giovane di tutti e si vedeva che gli tremavano le ginocchia — disse con voce incerta:
— Io non gioco più.
Un altro giocatore che perdeva interloquì rabbioso:
— Lei è molto giovane, caro amico, i giri regolamentari...
Allora il giovane si curvò all’orecchio di un compagno e tutti sentirono le sue parole appena soffocate:
— Si è ripreso gli scarti. Ha fatto la scala cogli scarti.
E faceva pietà, lui, che accusava.
Un terzo giocatore prese le carte
del baro e le rovesciò:
— E’ vero. Il fante e il dieci. Qui ci si deruba. Ci si deruba. E’ indegno. Un circolo onorato.
— I nostri quattrini sono. Quattrini che ci si guadagna sudando.
Il giovane, spalleggiato, riprese coraggio e. spazzò il tavolo col pugno chiuso, dalla parte del baro, sicché carte e gettoni caddero in grembo a costui. Il baro chinò lo sguardo, non so se per vergogna o per inseguire ancora una volta il danaro che rotolava per terra.
— Fuori! Fuori!
— Migliaia di lire ci avrà portato via in tutte queste sere.
— Era sempre lui che vinceva. Bisognerebbe denunciarlo.
Allora il baro si alzò in piedi e si toccò il cuore colla mano. Gli tremavano le narici come le froge dei cavalli. Non disse una parola. Si avvicinò alla finestra, si sporse, guardò in basso il cortile. Poi ritornò fra di noi e noi gli facemmo largo perché uscisse.
Cricchiano le scarpe degli uomini che si allontanano soli.
* * *
Non l’ho rivisto più per lungo tempo, e più tardi, quando a caso rincontravo, volgeva il capo dall’altra parte.
Ma quest’estate in una stazione balneare ci siamo trovati a tu per tu imbrancati nella medesima compagnia.
Abbiamo sfoderato vecchi ricordi e il baro ha parlato di quella famosa sera davanti a tutti e anche davanti a me. Ne ha parlato con un tono di giusta doglianza, come se in quella famosa sera gli fosse morto il padre o gli avessero rubato la sua donna, o avessero contro di lui compiuto un’azionaccia infame. Quale impudenza!
Ma il giorno dopo ho rivisto il baro in riva al mare, e giocava a palla con un bambino e correva e faceva le finte di gettar la palla in acqua e poi invece la lanciava per aria a pugno chiuso. E rideva. Un baro che gioca con un bimbo: vi assicuro non ci si accorge di nulla. *
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 14.09.32

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Citazione: Adriano Grego, “Un baro,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/661.