Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Parodie: Profumo di salotto borghese

Autore: Guelfo Civinini

Data: 1932-08-31

Identificatore: 1932_390

Testo: Gazzetta del Popolo
Parodie: Profumo di salotto borghese
Non ho bisogno di sforzo per ricordarlo, il salotto borghese dove passò la mia infanzia di fanciullo sognatore ma anche pellaccia, dai chiari occhi ammandolati sotto la fronte segnata da un'antica nobiltà intellettuale e dal grosso naso che anche allora mi dava tanto fastidio quando, buttato sopra le pratora a guardare il cielo, me lo vedevo sempre li, a pochi millimetri, che mi ingombrava la visuale.
Nel salotto buono noi ragazzi s'andava di rado. Soltanto qualche volta che la mamma ci voleva mostrare alle amiche, e noi s’entrava tutti insieme lenendoci per mano, a sfilare davanti alle poltrone di pelusce dove sedevano le belle signore. In cinque eravamo, ed io l'ultimo nato, il cacanidio, solo maschio in mezzo a tante femmine. Ho sempre avuto, come tutti sanno, un desiderio infinito d'una sorella, una sorella maggiore che adesso mi carezzerebbe i capelli grigi e anche un po’ diradati. Proprio ne avevo bisogno. Il destino ha voluto mandarmene quattro, che veramente sono un po' troppe, con una giunta di quattro cognati e undici nipoti. Ma così sia.
Di soppiatto, entravo qualche volta nel salotto, dove le tende abbassate mettevano una penombra misteriosa come quella delle foreste equatoriali fitte di baobabbi che ho percorso più tardi; quando ho preso questo vizio dello scrivere per il quale non ero nato, che maledico ogni volta devo mandare un articolo al mio giornale, e che nondimeno mi ha dato, non posso negarlo, la fama e le comodità di una vita da giramondo elegante. Ma allora non pensavo alle cartelle bianche da riempire e alla penna che anche oggi, per un brutto vizio che non mi son mai levato, mi macchia d’inchiostro le dita. A quel tempo, appena si tornava dall'estatatura nella vecchia casa di città, il mio primo ìmpeto era per quel salotto dove un prozio che portava il mio stesso nome, Guelfo, mi guardava dipinto dalla parete. Era stato un fiero schiumatore dei mari e, se avessi goduto la libertà di scegliere la mia via, certo la guerra da corsa e la pirateria mi avrebbero attratto. Da grande poter vivere, come Surcouf, la vita degli oceani, con gli arrembaggi, le rivolte, le tempeste e i naufragi; poter catturare galeoni colmi d'oro e di magnifiche femmine orientali, circasse, beduine, persiane.
A casa dicevano che nel viso somigliavo a quell’antico parente. Di lui si raccontava che era stato un amico affettuoso e fedele per quanti gli volessero un poco di bene, ma si sussurrava anche che, per una parola fuori luogo, aveva tirato una coltellata al più fraterno dei suoi amici. Il giorno dopo era andato a fargli visita all'ospedale, dove quello in leuuccio stava fra la morte e la vita, e gli aveva donato lacrimando una rosa. Un cuore proprio d'oro. Quando penso alla mia vita, oggi che l’adolescenza, la giovinezza e la maturità sono passate e forse è cominciata la vecchiaia, mi pare che al vecchio Guelfo assomigliavo davvero. Se non ho tirato coltellate e offerto rose poco c’è mancato. Perchè non l’ho fatto? Non era forse quella la mia vera vocazione?
*
Quando c’erano visite s'accendeva il lume a gas. Le signore con i vestiti di giaconetta e i falbalà sedevano sopra i puffi e le poltrone dalle nappine di seta, intorno alla mamma. Mi piaceva di spiarle dalla fessura della porta socchiusa, e sognavo dietro i loro discorsi. Anche questo ora cominciava a mettersi di mezzo ai miei pensieri.
Potevo avere dieci o undici anni quando tentai la prima avventura. Sapevo che quel giorno doveva venire la più graziosa di quelle amiche di casa, una dolce blonda che si chiamava Giglia, il nome più casto e rinfocolante che abbia mai sentito. Andai nel salotto buono un’ora prima che le visite cominciassero. S’era d'inverno, alle cinque faceva già buio, e gli scuri eran chiusi e le tende calate: mi misi sopra un seggiolo, nello spazio breve fra la finestra e la tenda. Nessuno avrebbe pensalo a cercarmi li dentro. Mi sentivo come un povero canetto abbandonato ma ero felice. L'oscurità e il silenzio suscitavano fantasticherie nella mia mente infantile, giuccherie che erano la più grande gioia di quei mìei anni.
Il trasognare a cui m'abbandonavo venne interrotto dall'entrare di una danna nella sala. Sentivo il frusciare delle vesti, e il profumo di lei mi toccava l'olfatto che è il più sottile e raffinato dei miei cinque sensi. Certo era la signora Giglia, quel sospirar lieve era il suo. Avevo proprio voglia di mandarle un bacio, di slanciarmi nelle sue braccia. La porta del salotto si aperse e la mamma entrò. La sentii che diceva « Cara, cara Artemisia ». Oh, spavento! Non era la mia Giglia, ma una vecchia zitella che tutti chiamavano la Merluzza.
Uscii inavvertito dalla mia posta, e corsi a piangere in camera mia. Per cinque minuti buoni avevo dunque amato la Merluzza: me ne sentivo avvilito, indignato con me stesso, con la mia sorte. E da allora sempre nella vita quando, corteggiatore persuasivo, ho stretto al mio petto una donna giovine, ho avuto anche nei momenti più dolci un attimo di ripulsione, di orrore. Mi pareva, come dieci e dieci e dieci e chissà quanti altri anni fa, di essermi ancora ingannato, e che sul mio cuore si abbandonasse non la vaghissima Giglia ma la vecchia Merluzza.
GUELFO CIVININI e per copia conforme
Alberto Cecchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 31.08.32

Etichette:

Citazione: Guelfo Civinini, “Parodie: Profumo di salotto borghese,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 16 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/646.