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Titolo: I vivi

Autore: Adriano Grego

Data: 1933-12-06

Identificatore: 1933_521

Testo: I vivi
La notizia giunse improvvisa in ufficio. « Ma come? Non è possibile! Ma se ieri mattina era qui con noi a lavorare! Ma se l’altra sera gli abbiamo infilato nel cappello tra il feltro e il cuoio un pezzo di giornale piegato! E lui senza capire lo scherzo: — Bisogna proprio che vada a farmi tagliare la «parrucca» perché il cappello non mi sta più in testa. — E la moglie? E i bambini? Ma vedrete che passerà anche questa! Grave, gravissimo... dicono sempre così i dottori. Il loro mestiere è quello di far paura alla gente... Oh povero Riccardo! Povero ragazzo! Bisogna far qualcosa per lui! ».
Tutti gli impiegati del reparto erano rimasti, sconvolti dall’improvviso annuncio. Gli volevano bene, a quel bambinone sorridente, né vecchio né giovane, che non aveva mai destato l'invidia di nessuno e che al venti del mese poteva indifferentemente chiedere o accordare un prestito di venti lire. Pensando a lui — a lui che il giorno precedente era stato trasportato d’urgenza all’ospedale su un’auto-lettiga dei « Militi del Soccorso » — provavano un brivido egoistico. Dunque la malattia, la morte può starsene imboscata così, aggredire un brav’uomo tranquillo che dorme vicino alla moglie, uscire all’improvviso dall’ombra in una delle prime ore del mattino? Che muoiano i vecchi e i malati, è giusto. Ma un uomo come Riccardo Pàstine, chi se l’immaginava?
Inconsciamente tutti erano trascinati a ricordare in lui qualche sintomo preesistente del male. Era un po’ rosso in viso. Gli zigomi eran percorsi da una ragna di fili vermigli. Andava sempre a dormire alle undici di sera. Poi, capivano che non eran quelli i segni annunciatori di una malattia come la sua, che arriva quando vuole arrivare, e allora s’incupivano. Uno si toccò colla mano lo stomaco, e si compiacque nel non sentire dolore. Un altro si palpò invece la vena della tempia, turgida e viva, in cui il sangue, al contatto del dito, guizzava come mercurio: le emozioni, pensava, gli inasprivano quel vecchio cronico acciacco. All’ospedale non ci sarebbe andato.
*
Per due giorni la malattia di Riccardo Pàstine, l’operazione, il contegno dei familiari e dei parenti, furono l’argomento centrale di tutti i loro discorsi. Talvolta si notava in qualcuno un sottile compiacimento nel poter discorrere « di quel povero ragazzo » con il capo reparto, con l’ispettore, col procuratore, nel trovare quasi inaspettatamente, in quel tema così lugubre, un motivo di intimità. Ma erano, quelle, soddisfazioni fuggevoli, ché tutti sentivano per il malato un’angoscia, una naturale pietà che li riuniva.
Parlavano spesso della moglie e dei figli e facevano i conti nelle tasche di Pàstine.
— Vediamo: la moglie, me l’ha dettò lui, gli ha portato in dote l’appartamento, e basta.
— E basta? — replicava un altro — sarà un appartamento modesto, ma vorrei averlo io; mia moglie, con tutto il rispetto che ho per lei, a me mi ha portato gli occhi per piangere.
— Lasciami dire, — incalzava il primo — saranno trecento lire al mese. D’indennità lui si prenderà dodicimila lire. Ci vivono un anno, e poi? Bisogna fare qualche cosa per lui. Bisogna, assolutamente.
E tutti eran d’accordo, e in quel momento impeti di generosità li spingevano ad architettare impossibili progetti. « Se non fosse per mia cognata che mi è piovuta in casa da poco, un figlio lo adotterei io » diceva uno. E un altro proponeva di affrontare collettivamente le spese del collegio. E tutti erano in agitazione, preoccupati, trascinati, oltreché dalla loro emozione, da quella contagiosa degli altri.
Dall’ospedale, intanto, avevano telefonato che per quarantotto ore era inopportuna qualsiasi visita di amici e di colleghi. Cosicché i due primi che si erano precipitati all’ospedale eran tornati con magre e sommarie notizie. Che l’operazione era andata bene, ma che si aveva gran paura per il cuore. Che la moglie era in uno sfato da far pietà e sembrava istupidita. Che le suore erano buone, gentili ed erano state proprio loro a far sistemare quel povero ragazzo in una camera riservata. Un impiegato protestò contro quel divieto assurdo che impediva l’ingresso ai colleghi d’ufficio. Un altro annunciò con una certa soddisfazione che sua moglie era andata dalla moglie di Pàstine offrendole di tener lei i bambini fino a quando il marito non fosse guarito. « Ha declinato l’invito — aggiunse — perché i figlioli sono in casa degli zii materni Ma ho capito che é stata molto sensibile a questa prova d’amicizia. Ci si aiuta come si può, non è vero? ».
*
Il quarto giorno, purtroppo, la notizia che tutti temevano venne confermata. Pàstine moriva e nemmeno un miracolo sarebbe riuscito a salvarlo. Chi ne diceva una e chi un’altra. Perforazione dell’intestino. Un processo setticemico. L’intestino si era rovesciato. Proprio cosi. Un uomo come quello, con delle spalle da atleta, alto che non passava dalla porta del custode, stava morendo in un letto d’ospedale. C’era da mordersi le dita. Piangere? « Sicuro: io non mi vergogno di piangere. Era il migliore di tutti noi. Un angelo. Un santo ». Esagerazioni isteriche di cui nessuno si stupiva in quel momento.
— Bisogna andare — proposero.
— Io vi giuro che non saprò muovere le labbra. Illuderlo? E con che coraggio? E poi la moglie! E l’olio santo, che cosa aspettano a darglielo?
Andarono tutti insieme all’ospedale nel tardo pomeriggio dopo la chiusura dell’ufficio: perché almeno una volta, prima che quello morisse, volevano vederlo. Un vento freddo, lungo la strada, li costringeva a camminare col capo chino, colle mani insaccate nei pastrani. Andavano in silenzio, raccolti. Póstine moriva. Le sue grandi mani rossicce non si sarebbero posate più su quel tavolo; essi non avrebbero più visto la sua schiena curva e possente; sarebbe venuto un altro al suo posto.
Entrarono in cinque nell’atrio desolato. Chiesero informazioni a un custode, poi a un altro. Erano incerti, sbandati, come dei fuggiaschi. Finalmente seppero la strada. Svoltarono a destra in un androne gigantesco, poi salirono per una scala, poi un nuovo corridoio e i loro passi risuonavano sull’impiantito, troppo pesanti. Qualche porta socchiusa, qualche infermiera, il cappuccio bianco di un ricoverato, qualche figura rannicchiata di borghese sulle panchine laterali. Nell’aria un odore misto di etere, di creolina, di biancheria grezza, di vernice nuova.
Arrivarono alla porta — il numero quarantuno — e il più ardito s’affacciò nella stanza. C’era una suora, un infermiere e la moglie: in mezzo, sul lettino, «il povero ragazzo», una maschera stralunata e selvaggia. Ognuno fu colpito da qualche particolare: chi dalla barba irsuta che alterava i contorni del viso già cosi noto, chi dal naso cereo e affilato, chi dalle labbra tese sulla mandibola come se l’ultimo respiro le stesse succhiando dal di dentro. Non parlava, il malato. Lo sguardo era fisso, pazzesco. Un rantolo usciva da quella bocca convulsa.
— Via, via! — disse l’infermiere e respinse col braccio i colleghi verso la porta, ricacciandoli come un branco riottoso.
Impossibile farsi riconoscere da lui. Impossibile dire una parola di conforto alla moglie. Via! Via! Sentivano essi stessi l’irriverenza dei loro fiati liberi, delle loro persone diritte e gagliarde, dei loro pensieri ancora impegnali nei traffici quotidiani, di fronte a quel moribondo purificato dall’olio santo.
E uscirono, e ripercorsero le scale, il corridoio, l’androne tetro dell’ospedale e tornarono al freddo della strada.
Si sentivano prostrati, sconvolti dalla visione di quello sfacelo. Neppure l’uno coll’altro si guardavano in viso. Ma poi sul tram, quando una ragazza incastrò il tacco di una scarpa fra le scannellature del legno e rimase così prigioniera, fra le risate dei passeggeri, allora tutti e cinque parteciparono all’allegria collettiva. Il più ardito, quello che per primo si era affacciato alla stanza numero quarantuno, si curvò, afferrò la gamba della ragazza, la scosse vigorosamente, le liberò il piede dalla morsa. E anche dopo, ritornato al suo posto, rideva cogli occhi sbarazzini. E tutti i compagni ridevano sonoramente, gorgogliando, raggrinzando la bocca e gli zigomi, contorcendosi smodatamente: proprio come se fosse stata quella la prima sorsata dopo una lunga sete, come se quel ridere li avesse compensati dei rantoli che avevano udito poco prima.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 06.12.33

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Citazione: Adriano Grego, “I vivi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/1331.