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Titolo: Antiche istorie di balie

Autore: Marcello Gallian

Data: 1932-11-09

Identificatore: 1932_489

Testo: Antiche istorie di balie
M’è avvenuto spesso di sentir sulla bocca di mia madre antiche storie di balie enormi e profane e non ho saputo celare mai come un senso di riprovevole e agiata compiacenza. Dice che quando fu il caso di affidare il neonato al latte altrui, il dottor Piccirilli, mago onesto e timoroso dell’epoca, scelse la privilegiata che mi spettava fra sessanta balie, fra di paese e di città, tutte sode e robuste, calde e affiancate le une alle altre come oggi le girls nelle fotografie. Prima la più bassa e via via in bell’ordine ultima era la più alta, si che chi avesse voluto andar su, sarebbe arrivato alla cima d’una lunga scala nutrita ad affacciarsi su selve di capelli mal pettinati e pieni di festuche. La prescelta entrò in casa poco vestita e avida d’ogni cosa: era usanza barbara di quei tempi fare alle balie quattro di tutto, d’ogni capo cioè di biancheria, e due vestiti di seta e corpetti grossi come palizzate e spilloni d’argento o d’oro e fasce azzurre e veli cadenti. Al primo passo, al primo dente, alla prima parola dell’infante, spettava alla nutrice paga doppia, stipendio nuovo, e ogni poco, ad ogni malessere, ad ogni nausea, ad ogni bisogno d’improvviso amorazzo, eran regalie, doni, prebende che fioccavano: il nutrimento doveva esser sano, passato al setaccio, e il vino lo si guardava nei bicchieri contro luce, stillato all’alambicco.
Affamate erano e avide di potere cosi che ancora oggi mia madre non sa celare, quando parla della faccenda, un misto sentimento di timore e di soggezione: s’aveva paura, dice, che la donna si stranisse e avesse latte acido: il bimbo che cambia latte, muore, o viene avanti affatturato.
Si metteva nel salotto, la donna, all’allattarmi, spantanata in una soffice poltrona, e i capelli forniti di spilloni toccavano quasi il soffitto e i piedi grossi e solidi eran piantati sopra un tappeto erto un palmo: sulle punte delle scarpe scherzavano gli amorini. Dinanzi a lei a vigilare la bisogna, era mio padre in barba e fez rosso, tutto il petto gremito di decorazioni, la sciabola con l’impugnatura d’avorio al fianco, un’ampia redingote con gli alamari d’oro, la carrozza a due cavalli al portone e il cocchiere di servizio, con la frusta che se ne vedeva la punta dalla finestra. Nel terrazzo fornito di ampio pergolato nato per miracolo sul nudo mattone ch’io ricordo ancora come una visione aspra della terra di Genova, sul terrazzo eran palle colorate di vetro fino, e fiori, e mezzelune e aeree bandierette e festoni all’intorno, un tavolo verde circondato da poltrone antiche che prendevano, chissà mai perché, la pioggia e la sera, sui davanzali, certi rossi tramonti e così tanti eran gli uccelli, che i fiori e le erbe nascevan per incanto dallo sterco bianco e innocente.
La balia, me ne avvedo ora, doveva spadroneggiare, fare il buono e il cattivo tempo, dava ordini, sveniva, si rialzava sorretta da carrucole d’oro, era presa da livori improvvisi, da subite noie, da nausee di mestiere: e allora eran pianti grida preoccupazioni, consigli di famiglia, allarmi ai medici più rinomati, terribili cipigli di mio padre subito sedati dagli sguardi supplichevoli di mia madre, vestita tutta a trine e merletti.
— Ti aveva in mano, figlio, come le pareva e ne poteva disporre a suo piacimento: t’aveva per caparra e ti avrebbe ridotto per rabbia come uno spillo, senza che noi ce ne fossimo accorti. Bisognava accontentarla, la ricoprivamo di gioielli e di vestiti, di scialli e di guanti e al Corso dei Fiori a Villa Borghese lei marciava nella carrozza dell’Ambasciata come una signora. I fiori che le gettavano indosso, li mangiava: faceva scorpacciate di garofani e di rose e tu ti nutrivi, dopo, di quei fiori.
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Io immagino che la balia fosse sporca fra tutte quelle trine e quei merletti e i tappeti erti e gli arazzi dovevano inviar polvere dove io succhiavo a occhi chiusi, gesticolando.
Ma so anche per certo che tuttora, nel tempo in cui viviamo, questa assurda e tremenda tirannia delle balie, questa proterva e sfacciata loro oltracotanza non sia finita. Ho veduto spesso padri sparuti e madri allarmate in sussulto, trattati a guisa di servi o di schiavi da balie alte e grosse, vestite di tutto punto, sonanti e avide, losche negli occhi: ho visto fortune andar in fumo, arie agghiacciate di famiglie, cibi prelibati fumare nelle case in miseria. In fila dietro la carrozzella guidata dalla balia, vengono i parenti poveri, i figli già grandi mal ridotti, il contado scarno: e la carrozzetta è piena di festoni, di veli, di tende, di sacchi di cibarie, di cuscini, e il mantice perfino costa un occhio della testa. Quando scorgo queste funebri passeggiate dietro ricchezze trionfali, l’odio mi salta agli occhi: e non tanto disprezzo la balia ridondante, quanto la famiglia che la segue: passa, mi pare, le generazione dei miei nonni, che dice di attaccarsi con ogni mezzo, soffrendo a crepapancia, alle antiche istituzioni: istituzioni basate sopra un compromesso, un pensiero vano, un piano adottato ciecamente, senza ribellione.
La balia, ch’è un lusso, deve scomparire: la parata della balia ricca, della balia gradassa e tirannica, della balia imperatrice, deve cessare. E’ una bruttura nazionale e paesana, con quei festoni barocchi, con quegli addobbi antigienici, pesanti e tardi, con quelle arie da nazione libertaria. E’ una macchia d’anteguerra. Tutta la vita dei figli dipende da quel latte dispotico, da quelle membra ottuse, dal comportamento di quelle Teresine mastodontiche, che si alleano con le madri denarose e leggere, con i padri insufficienti e occupati sino ai capelli negli affari, che disprezzano ogni amore, venali sino allo scrupolo e sicure da ogni misfatto. Ecco che a poco a poco prendono, quelle donne, le costumanze d’una famiglia, si alterano, diventano procaci e capricciose, guardano torvamente i giardini pubblici e le fontane, i servi e i giardinieri appaion loro gente di poco conto, da governare con disprezzo. Il lusso se le accaparra, le sale da ballo suscitano in loro sogni dionisiaci: di notte son tutt’occhi, nel Ietto vasto, ad attendere, con malumore, i padroni di ritorno dalla serata galante, avide di segreti da vendere al miglior offerente. S’attossicano di mura, di polvere, di cose fredde e lucenti; dileggiano lo Stato facendo le sornione e le indisposte, truffano e disperdono: sono un’epidemia nella quale non manca perfino, a detta di alcuni, la vanità del colore locale. Si mormora d’un signore bennato: ci ha la balia: come dire: si compera gli svaghi e le grandi indifferenze. Si porta un paese appresso, si trascina dietro il comune e il contado, e possiede alla fine una moglie onorata così che non è fornita nemmeno di latte.
O
Questo latte umano, che tragedia.
Basta una cura troppo forte, uno spavento, un colpo di scena, un lieve malumore, perché si affatturi. Diventa, dopo un malanno tutto spirituale, acido e torbido, si tramuta in veleno: ed è, nello stesso tempo, alla mercé di chiunque. Una balia può dunque far la scaltrita, la nervosa, la problematica, la sperperatrice di capricci, la lunatica, e nessuno può farle torto, nessuno può osare una paròla. Libera, la balia, vagabonda e sedentaria, fuori legge, non si preoccupa che del petto vasto, dello stomaco tronfio, e al minimo diniego, alla minima controversia, al più innocente dei rimproveri, ecco si ferma, impallidisce, sbarra gli occhi e tra la folla dei parenti accorsi si sente una voce d’allarme: « Il latte scompare ».
E’ la sete nel deserto, la scomparsa d’un segno di liberazione al naufrago in pieno mare, l’inverno arido e insieme il trionfo della vecchia borghesia che vede in questi incerti il rinnovato bisogno d’una enorme avidità di ricchezza.
Marcello Gallian.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 09.11.32

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Citazione: Marcello Gallian, “Antiche istorie di balie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 20 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/745.