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Titolo: Bar Oriente

Autore: Ugo Betti

Data: 1932-11-02

Identificatore: 1932_472

Testo: Bar Oriente
L’uomo dal gabardin entrò mentre già lo sguattero, tossicchiando, disponeva sui tavoli le seggiole rovesciate. Ordinò un caffè, che bevve adagio, guardandosi ogni tanto le scarpe bagnate, opache; poi un altro caffè, con del rum. Bevve anche questo lentamente, davanti ai vetri appannati su cui tracciava dei ghirigori col dito, facendo apparire pezzi d’asfalto luccicante, grosse ombre di taxi che stazionavano. La ragazza della macchina, pallida, gli occhi pesti, si guardava una delle sue grosse mani paonazze. La padrona, alla cassa, aveva gli occhi socchiusi, il volto appoggiato a una mano. Entrarono dei giovanotti con una chitarra empiendo il locale di voci tumultuose, dominate dai sibili della macchina.
Fatti saltare nel palmo degli spiccioli, che non gli bastavano, l’uomo dal gabardin aveva cavato un biglietto da cinquanta, piegato in quattro; le sue dita olivastre, lunghe, con grosse nocche, unghie scheggiate, nerastre, avevano aperto il biglietto sul marmo, subito s’erano ritirate. Non c’era resto. La padrona teneva il biglietto nella sua mano biancastra, il suo volto stanco dall’espressione melanconica sorrideva con l'aria di scusarsi. Si capiva che era buona, che era stata graziosa. Le mancavano cinque lire. L’uomo dal gabardin fece un movimento appena appena, un nulla, quasi soltanto con le sopracciglia, come per dire che andava bene lo stesso. Immediatamente, come spaventato, si vinse; riabbassò la mano in un gesto vago, voltando via gli occhi con un battito di palpebre, come infastidito dalla luce. Ma già la donna lo guardava un po’ dubbiosa; forse le stava nascendo una certa inquietudine; chiamò, piano: — Rinaldo, vieni un po’ qua. — Un uomo alto, ossuto, coi capelli che spuntavano a mezza fronte, era uscito da una porticina, aveva tolto con malagrazia di mano alla donna il biglietto, l’aveva alzato contro la lampada. Ora lo riabbassava; diede un’occhiata all’uomo del gabardin, si mise a ripiegare il biglietto adagio. D’un tratto disse che era falso.
Si erano accostati altri clienti. L’uomo dal gabardin, con una voce piuttosto bassa, e senza rivolgersi direttamente al padrone, spiegava che lui era sicuro, che il biglietto glielo aveva dato un tabaccaio sul corso. Gli altri lo stavano a sentire, sbirciandolo ogni tanto. Intercalava delle parole in dialetto, come per stabilire una certa confidenza, ma si sentiva benissimo che era forestiero. Parlava con un sorriso curioso, sul volto giallognolo; una specie di smorfia sbiadita, che gli scavava le rughe. Aveva fatto il gesto di riprenderlo, il suo biglietto, con l’aria di volerlo esaminare anche lui in trasparenza, ma il padrone aveva tirato indietro la mano. Alla padrona era cominciato un po’ di batticuore. Si fece largo un vetturino anziano, grasso, prese il biglietto quasi di prepotenza. Cominciava a palparlo, tenendolo anche lui contro luce, tra un cerchio di faccie alzate, quando alcuni, e poi tutti, si voltarono. Era ii garzone eccitato, sulla soglia, che faceva cenno; diceva che l’amico, quatto quatto, aveva preso l’uscio, filava. Tutti si buttarono fuori.
Già qualcuno correva: era un giovanottone, in berretto basco, che aveva fatto in tempo a scorgere il gabardin allo svolto. Dei pensieri confusi traversavano la mente del giovanotto. Si sentiva le gambe robuste, elastiche, la corsa scomposta dell’ometto, là avanti, gli dava una specie d’allegria, di rabbia, l’avrebbe acciuffato fra pochi attimi. Sentiva che gli ballavano gli spiccioli nella tasca dei calzoni, forse avrebbe perduto qualche lira, al diavolo. Già, con le ita, preparava il gesto con cui l’avrebbe abbrancato, pel gabardin, alla spalla. Scostato da una gomitata, si riavventò, sbatté l’uomo a un portone con una spinta assestandogli un pugno, due, e poi urtandogli la testa al pilastro. L’uomo si svincolò, riprese a correre. Gli era di nuovo sopra, pensò fulmineamente che bisognava stare attenti, l’asfalto era bagnato. L’uomo, che aveva fatto per volgersi, parve incespicare, stramazzò, rotolò, rimase lì, lungo, nell’ombra che facevano gli alberi. Il giovinotto si era fermato a due passi. Ansavano tutti e due.
— Alzati.
— Lasciami andare, sono un disgraziato.
La strada era deserta, con voci che s’avvicinavano. L’uomo caduto si mise in ginocchio, fece per sollevarsi. Invece si fermò, carponi.
— Alzati.
— Non posso mica alzarmi. — Era una voce diversa, ora, come stupita — Mi sono fatto male. Ahi! Mi sono fatto male davvero.
Si rimise giù sul lastrico bagnato, alzò gli occhi con un’espressione strana verso il giovanotto, che s’era accostato con un senso di disagio. Già arrivava qualcuno, un questurino.
— Dice che s’è fatto male qui — spiegò piano il giovanotto toccandosi vagamente il fianco.
L’uomo, da terra, seguitava a guardare ora l’uno ora l’altro, con quello sguardo strano, ansando sempre. Sopraggiunse di corsa, seguito da altra gente, il padrone del Bar, fu senza dir parola sullo sconosciuto che si riparò la faccia in silenzio, gli sferrò un calcio. — Pestarli, come scarafaggi, bisogna; altro che storie — gridava mentre lo tiravano indietro.
Nel Bar, quando l’uomo riapparve, sostenuto di qua e di là, per le ascelle, il vocio si abbassò, ma solo per un momento. Era infangato, muoveva gli occhi qua e là come distratto, con la faccia color cenere, e quella smorfia che assomigliava a un sorriso: ogni tanto alzava incertamente una mano per toccarsi il mento, pure infangato, che gli sanguinava. Si erano assiepati toccandolo quasi con l’indice, scambiandosi osservazioni a voce alta; dicevano che doveva essersi rotto l’osso lì, della coscia, una brutta posizione; che poteva avere sui quarantacinque anni, però si vedeva che era sciupato. Si fece di nuovo silenzio, quando il questurino, che si dava molto da fare, chiese con importanza alla padrona se lo riconosceva, l’uomo dal gabardin, se era lui. Mentre la donna girava gli occhi un po’ smarrita, le si vedeva il batticuore in gola, il marito, dandole uno strattone, le domandò con livore se era sorda. La donna fece di sì, che lo riconosceva. Già era arrivato un taxi, su cui fu caricato l’uomo dal gabardin, la cosa era finita.
Mentre si faceva i capelli davanti lo specchio crinato, e poi mettendo l’acqua sui comodini, ancora con un tremito, la donna ascoltava la voce chioccia del marito, di là, che seguitava a raccontare, a inveire, dicendo che occorreva fargli a tutti come agli scarafaggi, coi piedi sulla pancia, farli scoppiare; che dovevano lasciar fare a lui, altro che tribunali, darglielo fra le mani dieci minuti, quell’ometto giallo, quel tisico. Ora, rimasto solo, lo si sentiva raschiarsi e sputare forte, con malumore, dare i chiavacci con rabbia. Il rumore di quei gesti bruschi le faceva venire una leggera palpitazione. Eccolo. Da come scostava la seggiola, con una pedata, come buttava il panciotto, si capiva che era pieno di uggia, che soltanto a guardare gli occhi gonfi della donna, quella schiena già da vecchia, doveva sentirsi avvelenare di astio. Forse pensava: — Stai male, stai male, non muori mai. — Aveva spento il lume. Si rivoltava pesantemente. Dormiva.
Alla donna, ora, benché in fondo non ci fosse motivo, cominciavano a venire delle lacrime, che le rigavano la guancia e poi cadevano sul guanciale con un leggerissimo rumore. Di là dormiva il figliolo, già coi capelli del padre, a mezza fronte, la stessa voce. Vedeva, anche cosi al buio, la camera, il letto di quando avevano sposato, il tappetino; sentiva il marito russare; le lacrime le correvano giù sempre più fitte. Forse era l’uomo dal gabardin che le faceva tanta compassione, quello sguardo, quel mento infangato, quei capelli grigi. Pensava, singhiozzando piano, che domani mattina si sarebbe alzata, vestita davanti lo specchio; poi la bottega, i clienti, la ragazza, al banco, che si guarda le mani paonazze, lo sguattero assonnato che rovescia le seggiole...
Sentiva ora, sotto il viso, il guanciale bagnato, caldo, ne aveva come un sollievo. Cominciò a pensare, un po’ consolata, che del resto, tra qualche anno, il signor Paride, di fronte, avrebbe aperto il cinematografo, immaginava le scritte luminose, i cartelli. Forse avrebbero trovato, col tempo, qualche ragazza affezionata, da lasciare alla cassa nelle ore stanche, certi pomeriggi. Si figurava di essere nel cinematografo, ora. Si sentiva una spossatezza dolce, il suo fantasticare, a poco a poco, diventava un sogno. Nel film c’era un bel prato, grandissimo, contornato, laggiù, da alberi come in un parco. Ma che belle nuvole bianche, nel cielo sereno! Dove aveva visto delle nuvole simili? Forse da ragazza. Non se ne ricordava troppo bene. Ella camminava nel prato leggera, allegra come una giovinetta, ma anche un poco triste, insomma tanto felice. L’uomo dal gabardin non si vedeva, ma si sapeva che era in qualche posto, riposato, sorridente. Come si respirava bene, che dolce aria, che pace! Ah, era tanto bello, camminare cosi, che quasi le veniva da piangere; camminava lentamente, con un sorriso e gli occhi umidi, nel bel prato del suo sogno.
Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 02.11.32

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Citazione: Ugo Betti, “Bar Oriente,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/728.