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Titolo: Metropoli

Autore: Fabio Tombari

Data: 1932-10-12

Identificatore: 1932_446

Testo: Metropoli
Oliviero Renda entrò: un cameriere, di corsa, gli offrì una sedia. Se lo specchio della luce gli dava noia, l’avrebbe voltato dall’altra parte, oppure avrebbe potuto farlo accomodare più in là, sotto quei tamerici, più vicino all’orchestra. In ogni modo, ecco la lista: da un lato le bevande col relativo prezzo e dall’altro il programma musicale coi relativi autori.
— Se il signore vuol essere presentato a qualche ballerina...
— Grazie — rispose Renda — vorrei della birra.
Vicino a lui una fanciulla che non aveva trovato posto stava in piedi.
Renda s’alzò, l’inchinò, le offrì la sua seggiola innocentemente come le avrebbe offerto un trono. Ma la ragazza capi, sorrise: era il solito giuoco, un po’ all’antica ma il solito giuoco, e si accosciò sulla sedia coi piedi.
Renda da dietro, ritto come il precettore d’una regina, la guardava. Strano: sedersi a quel modo, alla cinese, dev’essere poco comodo, pensò; comunque è assai grazioso.
Poi l’orchestra sonò. Non era un ballo stavolta, ma quasi un intermezzo di danza, più solenne, più forte. Renda riconobbe L'Invito al Valser che tanto amava ascoltare per radio dal suo ritiro di campagna.
— Uff, che noia! — fece la ragazza e cavato uno specchietto prese a imbellettarsi e a brontolare.
Renda guardò in quello specchietto, pensò alle lodole, vi scorse un volto che non era il suo, tutto un volto infantile dietro uno specchio poco più grande del palmo d’una mano, un musino rosso e bleu che gli sorrideva, gli faceva boccacce. Poi la fanciulla, in fretta, tolse i piedi dalla sedia, nascose lo specchietto, si sedette composta. Aveva scorto il cameriere.
Ma ahimè, troppo tardi: il cameriere, deposto il vassoio, le si avvicinò, le intimò di lasciare quel tavolo, d’uscire.
— Lasciate, — disse Renda — la signora è con me.
E cominciò il giuoco.
Entrambi, seduti allo stesso tavolo, tacevano: l’uomo ascoltando l’orchestra, la ragazza fingendo d’ascoltarla. Come il vento della notte spirava da nord-est, le punte dei tamerici avevano dei fremiti marini. Era come se quelle piante venerabili, infisse lì in un giardino d’albergo al centro della metropoli, sentissero la nostalgia del mare, delle rupi, la nostalgia dei falchi.
Sotto le loro chiome senz’ombra, che portavano il peso delle lampade, le donne sbracciate, scollate, con fra i capelli — anche loro — dei diademi lucenti, avevano a tratti le stesse risate argentine delle onde. Ma loro sapevano, i vecchi alberi, come tutto ciò fosse falso ed effìmero. Oh, poter essere divelti dall’uragano e volare distante, sosta alle aquile, davanti alla bora: e simili a quei marinai condannati in terra dai reumatismi, maledivano le loro nodose radici.
— Volete fumare? — disse all’uomo la ragazza offrendogli la tabacchiera.
— Grazie, — fece Renda — io fumo i sigari.
Non importa: la ragazza gli offrì la tabacchiera lo stesso perché la guardasse.
— E’ d’argento sa, è tutta d’argento massiccio.
Renda distratto prese la tabacchiera, ascoltò il finale di Weber. Quando il maestro s’alzò per ricevere l’applauso, Renda depose la tabacchiera, battè le mani.
— Nemmeno la guarda — brontolò la ragazza, e gli voltò la schiena.
Dall’altro tavolo una vecchia dama fissava Renda con l’occhialino d’oro. La ragazza indispettita le mostrò la lingua, si rigirò per nasconderle il suo uomo.
Allora Renda notò la tabacchiera.
— Carina, — disse — chi ve l’ha regalata?
— Siete della Questura? — rispose la ragazza. E Renda istintivamente depose l’oggetto.
La ragazza sorrise. No, non era una ladra, lei se rubava, rubava per gioco, non per necessità. Rubava per far dispetto agli uomini, a quelli giovani che la trattavano male, come certe volte che la portavano via di notte con l’automobile e poi l’abbandonavano in mezzo alla strada.
Era una girl lei e voleva essere rispettata.
— E a casa, non avete nessuno a casa?
La ragazza scoppiò a ridere. E perché non doveva aver nessuno? Non era mica bastarda lei. Aveva un papà come tutte le altre.
— E la mamma?
— E’ morta da due mesi.
Oh. uno strazio! Era morta all'ospedale lasciandole cinque fratellini piccini che lei aveva dovuto custodire come se fossero suoi. Per due mesi la povera fanciulla non aveva potuto mettersi il rimmel agli occhi, ché piangeva nero. — Ma ora non piango più — disse — e quando mi viene in mente la mamma, penso a un’altra cosa, a un cappello, a un uomo, a un bicchiere. E poi ho trovato — continuò la piccina — quando mi vien da piangere che non ne posso più, allora ci ho un rimedio.
— Quale?
— Rido. Mi metto a ridere come una matta. Oppure vengo a ballare.
Era, cominciato un tango. Metà del pubblico dal cerchio degli alberi s’era riversato sul centro: uomini e donne s'erano abbracciati, stretti, attaccati, strisciavano.
— Volete ballare? — chiese la ragazza. — A me piace ballare coi vecchi come voi, meglio che coi giovani. Mi piace portare.
Ma Renda non ballò. Non che la parola vecchio l’avesse offeso; tutt’altro, ma egli pensava alla morte, a quella morte che non era sua. Gli venne in mente Chopin, il mare, l’autunno, cavò dal taschino il fazzoletto, ne aspirò il profumo d’acacia.
Quel movimento gli veniva istintivo tutte le volte che sentiva nell'aria odore di pioggia. Al mare come a caccia o in treno, sempre, dovunque, il pensiero della morte, del mare, della pioggia si associavano all’idea dell’autunno che amava aspirare nel suo profumo come a vivere un suo tempo lontano. — Come è dolce la morte — pensò. Disse:
— Avete freddo? — E la ragazza ebbe un brivido.
Poi il tango cessò. Le donne tornando al posto ridevano come bambine. Poi un silenzio. E Renda trasalì. Aveva sentito un rumore, un brontolio di budella vuote presso lui. « La piccina non ha ancora mangiato » pensò.
— Volete cenare? — chiese.
— Oh, grazie! Finalmente ci avete pensato. E’ da ieri che non mangio e ho una fame da lupo. Vorrei dello champagne.
— Sì, anche lo champagne.
Renda chiamò il cameriere, gli parlò all’orecchio. Che facesse lui: la piccina non aveva mangiato e bisognava nutrirla.
— Lasci fare a me — disse il cameriere, e portò un avanzo di braciola rossa, quasi cruda.
— Per il pane non importa — fece la piccina — ma all’insalata ci tengo, senza insalata non so mangiare e certe volte ne mangio fino a riempirmi la pancia. L’insalata è nutriente, contiene le litavine — spiegò a Renda e accese una sigaretta. Lei mangiava così con la sigaretta sul piatto, come le signore.
— Se anche tu vuoi fumare, fuma pure, — disse.
Ma Renda non fumò. Assisteva a quel pasto come a un rito, felice di vederla colorirsi di sangue, riscaldarsi.
Poiché la piccina mangiava in fretta, egli le si accostò, la serviva, le spezzava il pane, le offriva il vino.
La ragazza capì.
— Anche tu, papà, come tutti gli altri, vorresti ubriacarmi, ma io non ci casco.
Renda non le badò: era felice:
— Mangia adagio, piccina, non aver fretta. Ne vuoi ancora?
— Ora basta, se no scoppio — disse la fanciulla. E si portò una mano al naso.
Era cominciato a piovere. Come scompigliate da un uomo nudo, quelle dame s’erano alzate in fretta, ridendo, scappavano da tutte le parti.
Fuori una ressa d’automobili s’affollarono sulla porta: ripartivano in fuga. Prima che i due guadagnassero l’uscita, tutte le macchine se n’erano andate, pioveva forte.
— Andiamo — disse la ragazza.
— Dove?
— A casa mia, qui vicino.
Renda la coprì col suo impermeabile, s’alzò il bavero, la seguì, curvo, raschiando i muri, come ad evitare la luce dei fari più che la pioggia.
Camminarono per mezz’ora, per molte strade, bagnati fradici.
— Siamo arrivati — disse la ragazza aprendo una porta — vieni su.
— Grazie, — disse Renda — io vado all’albergo.
Allora la ragazza s’inquietò. La sua camera era più pulita di quelle d’albergo, con l’acqua corrente e tutto e non era il caso di far lo schizzinoso.
— Grazie, non è per la camera.
— E’ per me, allora?
E la ragazza si mise a piangere. Gli buttò le braccia al collo, lo chiamò babbo, nonno, zietto, gli rivelò tutto. Nella sua camera non ci aveva mai dormito nessuno, ma a lui gli voleva bene, perché era diverso dagli altri, perché fuori pioveva forte, perché era buono.
Oliviero Renda cavò il portafogli, le offri del danaro.
— Per che cosa?
— Per domani, quando hai fame.
Era il colmo. Voleva farle la carità, voleva comprarla? E per chi l’aveva presa?
— Vigliacco! — gli gridò, e gli ributtò l’impermeabile, gli sbattè la porta in faccia.
Oliviero Renda rifece la strada da solo, tutto solo sotto il temporale.
Ma non camminava più curvo. Incedeva in mezzo alla strada impettito, come un gigante destato dal tuono.
Trovò il corso, la piazza passò davanti al Duomo: era solo.
Poiché pioveva a raffiche, il volto aveva bagnato. Dalla fronte, dagli occhi, dal cappello, dai cornicioni del Duomo, la pioggia gli colava in bocca.
Qualcuna di quelle gocce era salata.
Fabio Tombari.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 12.10.32

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Citazione: Fabio Tombari, “Metropoli,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/702.