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Titolo: Un signore che rincasa

Autore: Ugo Betti

Data: 1932-09-07

Identificatore: 1932_397

Testo: Un signore che rincasa
Appena imboccata la strada, che era diritta e molto lunga, il dottore notò, in fondo, alcune persone. Il suo passo echeggiava leggermente tra le due pareti di case. Sotto la fila delle lampade ad arco, tranne quel gruppetto fermo laggiù, il lastricato era perfettamente deserto, sembrava come troppo pulito, convesso; se ne notavano certe scabrosità, certi interstizi nerastri. Egli doveva fare uno sforzo per immaginarsi che, di qua e di là, dietro quelle pareti parallele, era pieno di persone coricate, che forse sospiravano, si rivoltavano facendo cigolare il letto in qualche stanzetta afosa. Ognuna delle lampade ad arco, un po’ rade, faceva sotto di sé e ai due lati, sul selciato e sui muri, una zona dj chiarore che si alternava con una di ombra. Lungo la strada diritta, in prospettiva, parevano tanti U, uno chiaro, l’altro scuro, ciò dava l’impressione quasi penosa di inoltrarsi in uno scenario, però fatto di muri. Avvicinandosi cominciò a notare in quelle persone, forse pel modo con cui si accostavano gli uni agli altri, benché parlassero a bassa voce, qualche cosa che lo interessò. Pensando che ora si sarebbe fermato qualche minuto, per chiedere che cosa fosse successo, senti una specie di sollievo. Benché fosse assai stanco, quasi estenuato dal caldo della giornata, l’idea di entrare in casa, di ritrovarsi di fronte all’armadio, di appendere gli abiti coi soliti gesti, e poi di coricarsi, gli dava un senso di delusione, quasi di ribrezzo.
—- Litigano —. L’uomo fermo anche lui a guardare aveva risposto come di malavoglia; pareva che la cosa, più che altro, gli suscitasse disgusto, noia. Sull’altro marciapiede alcuni uomini in due o tre crocchi parlavano concitati, però sottovoce. C’era anche qualche donna. Una, con una blusa rossa, dei grossi seni, discorreva fitto fitto con un uomo scamiciato. Si sentiva, più in là, una voce ripetere qualche cosa, con una monotonia minacciosa, che dava un malessere.
— Va a casa, va. Lascia. Va a casa.
La risposta non si afferrava.
Si voltò un attimo verso la luce una faccia come mascherata: di sangue. Era un uomo senza colletto, che fumava una sigaretta, benché ansimasse un po’. Ogni tanto si toccava
la guancia con due dita, sputava, diceva qualche parola con un’ostinazione cupa, sardonica.
— Va a casa, Carlo. Va.
Ora le voci s'erano di nuovo abbassate; si erano raggruppati a parlottare, faccia contro faccia, anche la donna aveva fatto per accostarsi. Improvvisamente si senti un rumore rapido di passi: un uomo, non si capiva bene se sopraggiunto, correva verso il gruppo. Avendo il dottore abbozzato un gesto per frapporsi, fu urtato così impetuosamente che vacillò, sul punto di cadere. Ebbe la sensazione di una violenza eccessiva, inumana, che lo lasciò come stupito, turbato, Era avvenuto un rimescolio: si vide la donna, già in mezzo, sbattuta qua e là, scarmigliata; il gruppo si sbandò, si riannodò subito a grappolo, barcollò. Tutto questo in silenzio. Si senti solo, un attimo, uno scalpiccìo di piedi che tentavano far forza, un ansimare, che dava l’idea di una grande fatica. D’un tratto una voce:
— Lasciami, Guido. Lasciami, vigliacco. Mi rovina, questo vigliacco.
Il grappolo ondeggiò tempestosamente, si smembrò. Il dottore cercava istintivamente con gli occhi sul lastricato, ma già uno, impolverato, era in ginocchio, si rialzava. Tra le altre voci se ne distingueva una che ripeteva: «Fa niente. Fa niente» sempre con quella ostinatezza lugubre. Anche le altre voci, mentre il gruppo si avviava, indugiando ogni tanto sugli U di luce e d’ombra, avevano quel tono di rancore sconsolato, senza speranza. Echeggiavano leggermente, allontanandosi tra le pareti illuminate e vuote.
* * *
La lampada del comò, accesa un attimo, gli diede un senso di fastidio. Mentre si spogliava, al chiarore che filtrava dalle imposte, il dottore pensava ai seni pesanti della donna, e poi, chi sa perché, a una mano, la mano di un signore in tranvai, poche ore prima, una mano posata sulla spalliera, molto pallida, anzi giallognola, con lunghi peli neri, madida, cadaverica. Nella stanza era rimasta, dal giorno, un’afa soffocante; ora, supino, nudo, immobile sopra le lenzuola, si sentiva coprire di sudore, e ciò gli suscitava una specie di disperazione, benché cercasse di vincersi, raccomandandosi mentalmente di star tranquillo, per non sudare ancora di più. Cercava di trovare un pensiero ovvio, piacevole, al quale abbandonarsi come a un’altalena, per tentare di prendere sonno; ma da qualche momento, nella strada, sentiva una voce sommessa, quasi musicale, una specie di cantilena, che lo incuriosiva. Saltò giù, nudo, a guardare tra le stecche.
Un uomo e una donna, forse della comitiva di poco fa. Lui stava appoggiato al muro, la donna lo supplicava, cercando di smuoverlo, di tirarlo per la giacca, per le mani. Ma dopo due o tre passi l’uomo si svincolava lentamente, tornava a fermarsi, appoggiandosi al muro, sulla sua ombra. Di qua e di là, la strada si allungava completamente deserta, ora; era tale il silenzio, che le parole, benché sommesse, salivano quasi distinte.
— Vieni via. Non fare così. Ti giuro. Vieni via.
C’era una tale angoscia, nella voce della donna, che al dottore cominciò a battere il cuore a tonfi forti. La voce dell’uomo gli giunse più tardi; era più bassa, se ne distingueva solo qualche inflessione. Diceva di no, che era inutile, non c’era niente da fare. Diceva queste parole con un che di spento, di lamentoso, un suono di agonia; stava appoggiato al muro, mentre la donna seguitava a tirarlo per il vestito, per le braccia, disperata, come si farebbe con un ubriaco, un malato. Si capiva che quell’accasciamento tetro la atterriva. Forse avrebbe voluto fuggir via, sotto le lampade, con le sue ciabatte, ma non poteva; non poteva, non c’era nulla da fare. La sua voce riprendeva con quella ripetizione puerile, burattinesca, straziante:
— Vieni, vieni via, per carità, vieni.
A poco a poco, passo passo, le due figure si fecero piccole, erano laggiù, sparirono.
Óra il dottore si ricordava di certi sogni orribili fatti da bambino; anzi, non dei sogni: si ricordava solamente che, dopo, si svegliava agghiacciato da un terrore quasi soprannaturale e chiamava, piano, affinché qualcuno venisse col lume, giacché gli pareva, nell’oscurità, di non essere più lui, di essere un’altra cosa. Si era messo a muoversi lentamente, qua e là, per la camera buia, come per fare qualche cosa, non sapeva bene che cosa, per fermare la mente su qualche argomento vicino, concreto. Il pavimento sotto i piedi era abbastanza fresco. In realtà non c’era nulla da fare, tornò a coricarsi, si distese. Gli pareva di vedersi, supino, sul rettangolo biancastro delle lenzuola. Ah, era veramente troppo caldo, un caldo davvero implacabile, due mesi, due mesi ormai, era troppo, troppo! Aveva quasi voglia di mettersi a piangere, c’era davvero il caso di ammalarsi seriamente, di morire. Doveva essere parecchio deperito, parecchio invecchiato; si palpò un braccio, una coscia.
D’un tratto pensò che tra poco sarebbe stata l’alba, forse sarebbe entrato un alito fresco. Fra poco sul profilo curvo del mondo, verso est, sarebbe apparso un tenuissimo biancore. Poi un raggio, tangente, avrebbe sfiorato quel profilo, battendo sulle case più alte, ancora tutte silenziose, e sarebbe cominciata un’altra giornata. Ora la terra, portando lui supino sul letto biancastro, volava nel buio con vertiginosa velocità verso quel punto dello spazio dove questo sarebbe successo.
Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 07.09.32

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Citazione: Ugo Betti, “Un signore che rincasa,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/653.