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Titolo: AI numero 12

Autore: Adriano Grego

Data: 1932-07-20

Identificatore: 1932_331

Testo: Al numero 12
La padrona di questa pensione romana ha sul petto una corona di brillantini e di perle: ama perciò che le si baci la mano e atteggia le labbra a disdegno quando un cliente azzarda qualche osservazione sul conto settimanale. A volte appoggia al balcone i seni maestosi e guarda lontano, un po’ in alto. Lontano, un po’ in alto, devon esserci i suoi congiunti patrizi, i baldacchini, gli stemmi, un forziere dorato. Gran caduta la sua.
Ieri mi ha detto:
— Novità. Al 12, vicino a lei, ho alloggiato due care, care persone. Lei che mi conosce lo sa che io sono un po’ difficiletta... ma questa volta glielo dico: due persone di mondo.
La mia padrona quando dice « io sono un po’ difficiletta » — e lo dice spesso — sorride con orgoglio. Le pare così d’essere una donna rocciosa e disinteressata e le pare anche d’impartire una lezione magistrale a tutte le altre padrone di pensione, sorridenti e plebee.
* * *
Ieri notte, dunque, ho avuto la sorpresa di sentire scricchiolare l’impiantito della camera vicina che da parecchi giorni era disabitata. Due passi, pesanti e morbidi insieme, si odono. Forse camminano in pantofole. D’estate disfare le valigie è una pena e io ne sento la fatica come se fosse mia. Tanto più che fa caldo, questa sera, e non arriva, dalla finestra spalancata sul corso, il solito ponentino romano.
Ma ecco che di là dalla parete, a distrarre il pensionante accidioso, giunge un suono di voci in alterco, un suono di soffocato litigio. Pare a momenti che si tratti d’un gioco: una voce gorgoglia come a preparare la risata; l’altra voce risponde in sordina e tremolante: così fanno i ragazzi quando si confessano una burla di cui s’attenda l’esito di minuto in minuto. Ma subito le due voci sì abbrancano insieme, s’alzano, si separano, si congiungono. Una nota roca e teatrale; un’altra nota bianca e stridula che passa nell’aria staffilandola.
Poi, s’ode un altro suono diverso. Un suono in cadenza, una frase interrogativa a cui l’avversario non risponde. Allora il suono si ripete, poi si ripete ancora. Quella frase in cadenza diventa la frase dominante di tutto il litigio. Ironica, perversa, dev’essere un poco la chiave della disputa e magari la chiave di quel connubio.
Lentamente faccio scorrere la tenda che ricopre la porta divisoria e avvicino l’orecchio. Si sente, adesso, ome da una poltrona d’orchestra.
— E perché non torni laggiù?
E’ la donna che rivolge questa domanda e io riconosco la frase misteriosa di poc’anzi, la frase cadenzata, ironica, molesta, quella che a tratti ritornava ad attizzare l’alterco.
— Un tormento è stato. Avresti fatto perdere la pazienza ad un santo. E del resto me ne ricordo, sai, li quello che diceva tua madre!
Si ode un acuto rabbioso.
— Lascia stare mia madre! Ti cavo gli occhi, io! Te li cavo! Te li cavo! Infame!
L’uomo impone silenzio:
— Zitta! Non fare piazzate! Schh! Schh!
— Infame! — prosegue la donna sottovoce. — Infame! Lo dico e lo ripeto.
Il suono di una risata:
— Ma fammi il piacere, cara! Quando era in vita non la potevi vedere.
La donna scoppia a piangere. Odo i singhiozzi, attraverso il legno della porta, nitidamente. Proprio pare di sentire il petto sgangherarsi sotto quegli attacchi convulsi. Ma intanto, ritorna la frase di prima, rotta dal pianto.
— In-fame! In-fame! E poi, perché non torni laggiù?
— Basta!
— Se ci stavi... così bene...
Ora i contendenti devono essersi allontanati perché non si ode più nulla. Forse una tregua; forse una raccolta estrema di tutti i rancori accumulati e ringoiati in anni di convivenza. Penso che gli uomini talora si ripaghino delle umiliazioni sofferte in ufficio, nelle anticamere, nella dura lotta per la vita, sfoggiando fra le pareti domestiche una volontà e una voce tiranniche.
Silenzio. Le voci sono placate. Sull’impiantito non odo che un solo passo: uno dei due deve essersi gettato sul divano o sul letto, accaldato ed iroso.
Ma no: ancora un guizzo, ancora una nota acutissima ed è la donna che morde:
— Non hai saputo far niente in vita tua.
L’altro non risponde. Sento sbatacchiare una porta e poi un ultimo brontolio e poi il silenzio. Qualcuno ha sgombrato il campo, avvilito. Penso ad un proverbio antico e terribile: « Signore, nonmandate agli uomini tutto il dolore che essi possono sopportare ». Non hai saputo far niente in vita tua, ha detto la donna. E l’uomo ha sopportato. Tutto è tranquillo come prima. Dalla finestra spalancata non entra un fiato di vento. Nessun colpo di rivoltella: neppure un singhiozzo di uomo. Niente di nuovo al numero 12.
* * *
Questa mattina a colazione ho visto gli inquilini nuovi. La padrona me li ha indicati con un sorriso. Hanno entrambi le gambe corte e il tronco eretto: quando sono seduti, troneggiano. Cinquant'anni per uno, e il tono di gente benestante.
Dopo colazione ci sediamo tutti nella sala di lettura. Si parla, si progetta una gita a Formia, luogo tranquillo: l’inquilino del numero 12 racconta che a Ferragosto si muove da Gaeta una processione sul mare, pittoresca; e val la pena d'andarla a vedere.
— Ci andiamo?
Ci andranno. Allora mi viene in mente che per far salire la signora in barca bisognerà tenderle il braccio e sarà il marito che glielo tenderà. Tutto è tornato tranquillo, dunque. Meglio così.
A pensarci bene, le tragedie sono rare. Del resto, quando si litiga — tutti lo sanno — ci si dicono delle cose aspre. Ma se sono verità, al mattino dopo si finge che sian state bugie suggerite dall’ira. Perché la vita « insegna tante cose ». Lo dice anche la padrona quando, alla sera, pone sul comodino da notte, vicino ai conti del macellaio e alle bollette del gas, la sua bella spilla gentilizia, tutta di brillantini e di perle.
Adriano Grego.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 20.07.32

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Citazione: Adriano Grego, “AI numero 12,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/587.