Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Estranei

Autore: Arnaldo Frateili

Data: 1932-07-13

Identificatore: 1932_313

Testo: Estranei
In quella stazione straniera, una sera d'estate che pareva inverno, mi sentii improvvisamente solo nel mondo. Lo scroscio della pioggia sommergeva tutto. Ero disperato. In quel, momento incontrai gli occhi di Anna, che attendeva anch’essa l’ultimo treno per Lucerna passeggiando sotto la pensilina. Fu un guizzo rapido ma intenso, come d’una persona che mi avesse riconosciuto. Non vidi altro, perché la luce era poca. Notai però che lei e la sua compagna avevano soprabiti bagnati, e pendere sulle sue spalle due trecce nere, lunghe, stillanti acqua. Naturalmente, quando arrivò il treno, salii dietro quello sguardo. Le due donne presero posto nell’angolo d’uno scompartimento vuoto, di terza classe. L’altra era una bionda non più giovane, insignificante, patita. La mia fanciulla invece aveva lineamenti un po’ duri ma attraenti, era pallida, e non, poteva avere più di diciott’anni. Mi ci sedetti davanti, e cominciai a fissarla.
Allora ero un bel ragazzo bruno e forte; viaggiando all’estero per premiarmi della laurea mi riconoscevano subito per italiano. Avevo occhi, di cui m’era noto il fascino, che gettavo come una rete sulle donne, cui volevo far pagare una delusione patita al tempo del mio primo amore. Facevo pensare loro chissacché con quegli sguardi, e mi divertiva innamorarle o almeno metterle a disagio. Ma dentro di me mi sentivo egoista e cinico, mi pareva ormai d’essere di marmo. Cosi cominciai il gioco. Gli occhi della bella mi sfioravano e fuggivano, mentre parlava con la compagna in una lingua che mi parve russo. Ma all'improvviso mi fissò francamente, ironica e aggressiva, e mi scoppiò a ridere in faccia.
— Pourquoi riez-vous? — domandai, nascondendo lo scontento sotto una cera divertita.
— Parce que vous êtes drôle — rispose lei; e subito in italiano: — Non si guardano le donne come se voleste mangiarle.
La pioggia continuava a scrosciare sui vetri appannati. Quella solitudine del treno nella notte favorì la conversazione che divenne presto intima, mi parve. Mi disse d’essere russa, studentessa a Losanna, che viaggiava per conoscere la Svizzera con sua sorella. Da Lucerna, domani, sarebbero andate ad Andermatt. Ci dovevo andare anch’io, e accettò senza difficoltà la mia compagnia. La bionda ci guardava indifferente, assonnata, come se non capisse quello che dicevamo.
* * *
Che Anna avesse un’anima, cioè pensieri e desideri diversi dai miei, non mi passò neppure per la testa. Se aveva un’anima questa era già mia, come la mano che lei mi abbandonava ogni volta che potesse farlo di nascosto, della sorella. Costei taceva sempre, ma non ci perdeva mai di vista. Quei due giorni della gita ad Andermatt furono di vita quasi comune. Anna mi seguiva dovunque, sorridente e remissiva. Sentivo di piacerle, perché mi rispondeva con un’occhiata d’intesa se le stringevo il braccio. Tutto era dunque facile, andava per la sua china. Pure c’era qualche cosa che non capivo: un’indipendenza nei suoi giudizi, che diveniva ribellione solo che provassi ad imporle i miei. Se io dicevo bianco, lei diceva nero. Pareva che vedesse le cose del mondo in un modo tutto diverso da me. In fatto d’amore esprimeva idee cosi franche, assolute, esaltate, che mi stupivano. Avvertivo un’altra razza, una resistenza in quella cedevolezza, un mistero che avrei scoperto alla prova dei fatti. E volli provare subito.
Venivamo giù verso Göschenen, per una strada che un’alta parete di roccia divideva dal fiume incassato e vorticoso. La sorella, meno giovane di noi, durava fatica a tenerci dietro. Nel voltarmi, la vidi distante. Allora tirai Anna in un cunicolo aperto nella roccia, che terminava in una specie di finestra sul fiume. Qui, assordati dal frastuono, avvolti dalla polvere d’acqua che le onde gettavano in alto, avendole cinta la vita con un braccio per difenderla dall’attrazione dell’abisso, la baciai all’improvviso. Arrossi e mi respinse, fulminandomi con occhi indignati. Il terreno era viscido, e per non cadere quasi mi afferrai a una sua treccia. Questo la fece ridere, e io mi sentii anche più avvilito.
— Non pensavo che un bacio t’offendesse — mormorai.
— Te lo avrei dato, se me lo avessi chiesto — rispose con calma.
— Allora mi ami? — dissi. Lei sorrise e cambiò discorso.
Di baci, infatti, me ne dette quanti ne volli e quanti potè darmene, nelle molte gite che facemmo insieme per quasi tutto il luglio. Ma non riuscii mai ad averla un momento soia, benché spesso prendessimo alloggio nello stesso albergo. Quando glielo chiesi, mi rispose fermamente:
— Ci vuole l’amore per fare certe pazzie.
In quella fermezza sentivo un distacco, una chiaroveggenza di cui m’offendevo perché mi pareva di non aver pensato a nulla di male invitandola nella mia camera. Cercavo la solitudine per parlarle con libertà, senza la testimonianza della bionda, per forzare il mistero della sua anima. M’illudevo di amare ormai solo l’anima di Anna. Ma, più che amarla, essa m’esasperava. Chi è? Che so io di lei? Mi bacia, ma non ha detto mai di amarmi. E allora che donna è, per concedermi certe confidenze? Ma sentivo in lei come un profumo di novità. « Ci siamo incontrati per un caso, e ci separeremo senza conoscerci — pensavo. — I corpi si toccano, talora si desiderano, e le anime restano impenetràbili ». Quella impenetrabilità, rivelatamisi per la prima vòlta, mi spaventava.
— Dimmi che mi ami — insistevo. Devi dirmelo.
— Perché devo? — ed era di nuovo ribelle. Un giorno mormorò; — Te lo dirò, se voglio.
Quanto poco conoscessi di lei lo seppi ritirando insieme la nostra corrispondenza alla posta di Lucerna. Su una sua lettera lessi che era indirizzata alla principessina Anna Soboleff. « Principessa? ». « Sì ». Letta la lettera, rimase assorta; poi mi disse:
— Mia zia, badessa in un monastero di Parigi, vuole che io vada subito da lei per una cosa di famiglia.
Rimasi annientato, mentre Anna parlava con la bionda. Quindi tornò da me.
— Ma io non parto — mi fece, allegra. — Mando l’istitutrice, e l’aspetto qui. Staremo soli due giorni.
— Non è tua sorella? — domandai sorpreso.
— No — e mi spiegò che, per indurla a partire, le aveva detto che anch’io ripartivo per l’Italia la sera stessa. Mi dette appuntamento alla stazione, per andare insieme a Basilea.
Quella gita a Basilea, dopo tanti anni, mi sta tutta qui nella memoria. Anna era allegra, come sempre; avrei giurato che nei suoi occhi non c’erano lagrime. La sera all’albergo, mentre si pranzava, un signore ci disse che la Russia stava per dichiarare la guerra alla Serbia. Anna non si preoccupò e anch’io, tutto preso dal mio amore, non ci pensai. La notte, senza che glielo avessi chiesto, lei sali nella mia camera. Era spaurita, e tremava a ogni passo nel corridoio. Poi, quando tutto fu silenzio, non ho più trovato in alcuna donna tanta grazia, tanto cosciente confidenza, tanto abbandono.
Mi destò una mattina piovosa. Anna, seduta davanti lo specchio, faceva già la sua toletta. Era scura nel viso e aveva la fronte grave di pensieri. Mi disse recisa:
— Questa sera parti davvero. Ti darò il mio indirizzo e ci scriveremo. Io vivo a Pietroburgo.
Protestai che l’amavo troppo, e non potevo più lasciarla. Si fece più scura e disse:
— Questa sera arriva mio fratello.
Risposi: — Me ne infischio, io non me ne vado.
Allora divenne violenta, quasi selvaggia. Mi gridò che avrebbe detto tutto al fratello, che mi avrebbe magari ammazzato, che io non sapevo di che cosa lei era capace. Pareva una furia ed ebbi quasi paura, ma dissi con freddezza:
— Questo è un ricatto.
— Che cosa è ricatto?
Glielo spiegai, e Anna non parlò più. Io mi sentivo cattivo e angosciato. Dissi, uscendo dalla camera:
— In fondo siamo degli estranei.
Segui una giornata strana, penosa. Andammo per strade grige, sotto una pioggia minuta, senza parlare. Qualche cosa s’era spezzata, e non riuscivamo a ricongiungerne i capi. In treno verso Lucerna cercava di sorridere; ma poi chinò la fronte e la vidi piangere silenziosamente. Mi commossi, una pena ignota veniva su dal fondo dell’anima. Le domandai perché piangesse, immaginando tante ragioni a cui lei non rispondeva. Finalmente mormorò:
— Stamattina hai detto che siamo degli estranei. Mi ha fatto molto male.
Io quasi non ricordavo, non capivo, ed ero stupito.
— Sarei venuta, se eri un estraneo? — domandò.
Ma che fossimo estranei me lo dicevano proprio quella mia incomprensione e quello stupore. Nel lasciarci, con la promessa che non l’avrei cercata per una settimana, mi disse che ci saremmo trovati la domenica prossima alla stazione di Lucerna. Era accorata, ma rise come al primo incontro, nel salutarmi.
* * *
Girai felice, quei giorni, da Zermatt a Saint-Moritz. Avevo capito, avevo deciso: avrei sposato Anna. Vedevo solo lei dovunque andassi, per monti e laghi. Non vidi nelle città le folle che facevano la coda agli sportelli delle banche; non vidi un giorno i treni pieni di soldati. Ma una sera, a Ginevra, trovai sulle mura i manifesti della mobilitazione. Allora capii che era la guerra. Corsi a Lucerna, cercai Anna per gli alberghi: non c’era. Passai quattro giorni alla stazione: non venne più. Partiva gente d’ogni paese, masse di studenti russi che cantavano le loro canzoni da spezzare il cuore. Si sentiva la guerra montare intorno, e il mio piccolo dramma fu sommerso dal dramma di tutti. Confini chiusi, popoli in armi, barriere di fuoco; ma non più della barriera che mi aveva diviso da Anna esse mi parevano tremende e impenetrabili. Anna s’è persa così: chissà neppure se riuscì a raggiungere il suo paese? Oggi la ripenso con dolcezza; ma quella parola amara che le dissi, quelle sue lagrime non l’ho più dimenticate. Siamo tutti degli estranei. Ci amiamo, ci desideriamo, ci diamo l’un l’altro gli affetti, i sogni, i corpi, la vita magari. Ma le anime, la sola cosa che conta, restano in noi perché non trovano la porta. Estranei, soli. Per questo io non mi sono più legato a nessuna donna.
Arnaldo Frateili.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.07.32

Etichette:

Citazione: Arnaldo Frateili, “Estranei,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/569.