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Titolo: Il "Cristoforo Colombo" di Dino Gorrone

Autore: Enrico Emanuelli

Data: 1932-06-22

Identificatore: 1932_283

Testo: UN LIBRO NON SCRITTO
Il "Cristoforo Colombo" di Dino Garrone
Di certo i nostri lettori conoscono il nome di Dino Garrone, un giovane morto pochi mesi fa a Parigi, assai noto negli ambienti di Roma e di Firenze. Quello che con lui le lettere italiane hanno perso, lo hanno chiaramente detto giudici autorevoli. Del Garrone usciranno presto alcuni volumi: l’epistolario, la raccolta degli articoli, uno studio sulla « Scapigliatura milanese » e gli editori saranno molto probabilmente Treves o Vallecchi. Nell’articolo che pubblichiamo un nostro collaboratore, legato da vincoli di fraterna amicizia al povero Garrone, narra brevemente la trama di una vita fantastica di Cristoforo Colombo alla quale da tempo il Garrone pensava.
Fu a Parigi, dinanzi ad un tavolino del Dême, ch’io conobbi la fantastica storia di Cristoforo Colombo che Dino Garrone aveva in animo di scrivere. Dino raccontava rapido, colorito, con la voce che seguiva la vicenda e ne era quasi un commento musicale. Le parole si rincorrevano oppure indugiavano con lente cadenze; e nelle pause, ecco un gesto, un colpo di mano; netto, chiaro, che valeva più di qualsiasi aggettivo.
* * *
Cristoforo Colombo è ragazzo. Non studia, non sta in casa, non ha amici. Chi lo vuol vedere vada al porto, chi vuol farsi ascoltare parli di terre lontane, di viaggi in paesi sconosciuti. Sua madre è disperata: una razza di figliolo come quello non sa dove sia andata a prenderlo. Il padre appena lo sopporta, con una ostilità non sempre nascosta. Per questo Colombo pensa di fuggire. Andrà a Firenze dove sa esservi gente dotta tra i dotti. Là incontra un vecchio matematico che, tradito dalla moglie, si consola con aridi calcoli e speculazioni celesti. Per giungere dal matematico bisogna salire cento e più gradini e poi star curvi sotto il tetto. Colombo dorme in questa stanzaccia; ed è qui che si svegliò un mattino con la nuova idea. « L’acqua sta in un catino — dice — perché da tutte le parti è circondata. Ora la nostra terra è una sponda e se non ce ne fosse un’altra il mare cadrebbe nel vuoto ». Il vecchio matematico a queste parole lo abbraccia: Colombo ha ragione. Parta quindi subito per Pavia, vada a quell’Università.
A Pavia però i professori ridono. Non vede Colombo che sul mappamondo disegnato da Giovanni Leardo a nord sta scritto: « Diserto disabitado per fredo » ed a sud « Diserto disabitado per caldo »? Non venga quindi a raccontar fandonie; le cose vanno bene come sono e proprio non è necessario un pazzo che le imbrogli. Ma un mattino sulla carta trovano scritto: « Terra del foco ». Chi è l’incosciente che ha rovinato la carta tanto venerata? Colombo, scoperto, deve fuggire. I vent’anni son da poco passati. Oramai l’idea dell’altra terra, dell’altra sponda è come un incubo.
Più tardi Colombo riesce ad imbarcarsi come marinaio su un veliero che fa commercio di spezie. Quando il cielo è sgombro, la navigazione lenta (allora il rullìo diventa ninna nanna per bambini) Colombo ha l’aria trasognata. Lo si vede, sempre intento a guardare il mare se giorno; a scrutare il cielo se notte. Colombo vorrebbe tutto sapere: e quante onde sono nel mare, e quante stelle nel cielo, e quanti uomini sulla terra. Ma se poi leva vento, se le vele devono essere manovrate, se occorre che uno scoiattolo fugga sugli alberi, s’arrampichi sulle scale di corda, s’abbandoni alla fune, allora Colombo supera tutti. Solo per questo a bordo lo sopportano. Ma in una notte di pece nemmeno la sua bravura non serve. Le onde portano via un albero, strappano le vele, schiacciano il fasciame come una noce. L’alba trova Colombo pieno di freddo e stremato di forze, attaccato ad un rottame. Per fortuna le coste del Portogallo sono vicine e l’alta marea lo porta a terra. Lisbona lo accoglie; ma e Colombo vuol vivere deve mettersi a lavorare, a far corde. Non tralascia intanto di spiegare a quanti gli parlano: « L’acqua sta in un catino perché da tutte le parti è circondata. Ora la nostra terra, ecc. ». Anche il Re del Portogallo viene a sapere quanto Colombo va dicendo ed incarica il Vescovo della città di veder chiaro nelle intenzioni di questo orientale, capitato nel regno chi sa da dove. Alla presenza del Vescovo Colombo spiega che l’acqua sta in un catino perché è circondata da tutte le parti. E quindi se la nostra terra... «Ma questa è eresia », grida il Vescovo. Colombo allora si butta in ginocchio, canta il Te Deum, dice i versetti della Bibbia; nessuno più di lui è fedele. Per ora è rilasciato. Il Vescovo riferisce esattamente al Re la spiegazione di Colombo. E se fosse vero?, si pensa. Deciso. S. M. ordina a Don Alvarez, il miglior capitano che abbia il regno, d’armare il veliero più forte, di riunire l’equipaggio più provato, di salpare immediatamente, navigando venti giorni con la prua volta al sole. Ècco per Don Alvarez un lasciapassare regio perché al ritorno possa subito essere ammesso a Corte.
Dopo quaranta giorni alla porta del palazzo arriva uno scamiciato, gli occhi fuor dall’orbite, la testa arruffata. Ha un lasciapassare regio, nessuno osa fermarlo; ma il Re, vedendolo, sobbalza sul trono, spaventato. « Sire, sono Don Alvarez, ho navigato venti giorni con la prua volta al sole. L’acqua, negli ultimi giorni del viaggio, era incandescente, il legno scottava. Avevamo perso le forze, la voce e comunicavamo a segni. Solo il pensiero di V. M. ci ha fatto trovar la via del ritorno. Io ed i miei uomini abbiamo però giurato di non rimettere più piede sul mare ». E Don Alvarez, a prova di quanto dice, scopre il petto dove è tatuato un enorme sole. Ora la manovra è chiara; Colombo, emissario di qualche governo, tentava di condurre alla rovina la flotta portoghese. Sia immediatamente arrestato, imprigionato. Alle cantonate di tutta Lisbona è esposto l’editto. Gran premio a chi consegnerà vivo o morto Colombo. E il pover'uomo deve fuggire. Una via diritta è davanti a lui, una strada che lontano finisce col perdersi nell’azzurro del cielo. Nessuno però vede Colombo che fugge perché un’ondata di sonno lo precede. Le guardie, i doganieri, gli sbirri cadono addormentati all’avvicinarsi di Colombo e si risvegliano appena lui è passato.
Da tre giorni cammina, ora è alla quarta notte. Un tramonto di fuoco arrossa i monti della Sierra Morena. Colombo sente una mano sulla spalla, una voce che lo chiama: — Chi sei tu? — risponde Colombo. — Io sono colui che sa tutto — dice l’altro. — Come vedi so il tuo nome e so che vai in cerca d’una terra. Ti occorre per far questo un veliero e non lo trovi. Dimmi: tu sei uomo di fede e fermamente credi; lo hai detto anche al Vescovo di Lisbona. Perché dunque non preghi il tuo Dio che tramuti quella montagna in veliero? Fu detto: domanda e ti sarà dato — Colombo alza il volto, dice con un fil di voce: — Hai ragione —. Ed eccolo in ginocchio a pregare: « Padre che stai nei cieli, fa che quella montagna diventi un veliero ». Ed infatti... non è sogno: la montagna si muove, si curva, si plasma sotto una invisibile mano. S’aguzza davanti a forma di prua, s’arrotonda nei fianchi, fioriscono l’albero di trinchetto, quello maestro e vele distese, gonfie d’un vento che la sospinge verso il mare. Ma è un attimo: Colombo buttato a terra grida ed invoca il perdono. Troppo tardi s’è accorto che con quella stolta preghiera ha tentato la volontà divina; ritorni la montagna al suo posto e scenda su di lui la clemenza di Cristo crocefisso. Il sole è caduto, l’ombra dilaga. Quando Colombo rialza il capo si ritrova solo; il demonio è scomparso lasciando sulla terra una macchia nera. Colombo riprende il viaggio ed in piena notte arriva ad un convento. Ha bisogno di riposo e di tranquillità. I frati son bravi, e occupati tutto il giorno nelle preghiere han bisogno di qualcuno che suoni le campane e tenga in ordine il cortile. Colombo fa amicizia col padre che dirige il convento; ed una sera si confessa: «Padre, — dice — l’acqua sta in un catino perché da tutte le parti è circondata. Dunque, ecc. ». Il vecchio frate non trova errata l’ipotesi; anzi, per lui che ogni mese si reca a Madrid per confessare S. M. il Re di Spagna sarà facile dire al Sovrano il progetto. Cosi avviene. I dotti di Salamanca però son chiamati a decidere se si debba tentare o no il gran viaggio. In lunghe riunioni, in discussioni eterne i dotti pesano i pro ed i contro. Gli anni intanto passano senza che il consesso di Salamanca prenda una decisione.
Nel frattempo le carceri del cristianissimo regno di Spagna rigurgitano di delinquenti. Allora balena ne! capò d’un ministro una soluzione: si dia a Colombo la parte più rissosa, i peggio elementi di simile schiera e poi tre caravelle, dal legno che fa acqua, dalla velatura rattoppata, e lo si lasci partire. Nessuno— né velieri, né carico — ritornerà a terra.
Colombo è chiamato a Madrid, ironicamente è nominato Imperatore dell’Oceano, prende in consegna l’equipaggio. Prima di partire, però, Colombo conosce una donna, una donna qualunque che fa il mestiere. L’amore di Colombo è ingenuo come quello di un bambino. E la donna offre al partente tre colombe ed un bastone intagliato con strane figure; con solo questi segni d’augurio Colombo salpa.
Si naviga. I giorni si accumulano uno sull’altro nel piccolo giornale di bordo. Un mese è passato. L’equipaggio ora comincia ad essere stanco, annoiato. I più rissosi son stati uccisi, le carte per giocare sono unte, i dadi son Logori. Per quella gente non v’è più ragione di navigare. Colombo prima ordina, poi insiste, infine scongiura. Spiega a quei marinai improvvisati che l’acqua sta in un catino perché da tutte le parti è circondata e quindi anche il mare ecc. Ma a nulla servono le sue spiegazioni; ed un giorno la lotta si scatena apertamente. Ad una delle tre caravelle tagliano l’albero maestro e l’equipaggio giura che a nessun costo proseguirà nel viaggio. Colombo disperato si rifugia nella sua cabina. In uno scatto d’ira prende il bastone intagliato, lo rompe e lo butta in acqua. « Legno, legno! », si grida. Colombo subito vede la possibilità di sfruttare l’accaduto ed incita a continuar la navigazione. Ma è questione di giorni e poi ad una nuova sommossa degli equipaggi deve scendere a patti. Ecco, ottiene ancora tre giorni e tre notti: allo scadere del termine le prue saranno voltate. Colombo non sa rassegnarsi: rovinano sopra di lui, col loro terribile peso, le montagne de’ suoi sogni. Ma la terra ci deve essere perché l’acqua sta in un catino essendo da tutte le parti circondata, dunque...
Alla fine del terzo giorno l’equipaggio allegramente canta in coperta: domani all’alba s’inizierà il ritorno; finalmente il pazzo dell’oceano (così chiamano Colombo) dovrà per forza obbedire. Ma Colombo chiuso nella sua cuccetta non smette di sognare. Pensa e prega. Poi, prima che calino le ombre del crepuscolo, prende una di quelle colombe che gli aveva regalato la donna, mette sotto l’ala un biglietto, apre un boccaporto, la lancia al volo. Corre subito in coperta perché vuol vederla fuggire per quella strada che pure lui domani mattina comincerà a rifare. Ma la colomba, in cerca forse della direzione giusta, fa un ampio giro attorno alla caravella, poi si posa sull’albero maestro. Tutti, trasportati da un improvviso entusiasmo, urlano; quello è un segno infallibile, la terra c’è, non deve essere lontana. Ma un mozzo s’è attaccato alla scala di corda, corre, s’arrampica indiavolato. Colombo ha gli occhi lucidi di lagrime. Se la colomba è presa, il biglietto sarà facilmente scoperto e chi sa, forse potrebbe sembrare un inganno voluto. Ma proprio mentre il mozzo allunga la mano, ecco che la colomba fugge. Solo due o tre penne gli restano nelle dita e cadono poi adagio, adagio sull’acqua. « Avanti — grida Colombo a’ suoi uomini. — Una notte ancora! ».
Nei cieli, sul trono d’oro, il Padre Eterno non ha perso un gesto, una parola di Colombo, da quel mattino che disse al matematico di Firenze: « L’acqua sta in un catino perché da tutte le parti è circondata. Dunque, ecc. ». Conosce la sincerità dell’uomo, la sua fede. Sa quanto ha penato per questa terra ché non esiste, e quante tribolazioni e quanti insulti gli sono toccati. Il Padre Eterno chiama a sé due angeli ed ordina: « Da quarant’anni Colombo cerca una nuova terra. Dategliela ». E così la terra nuova vien giù, adagio, come quelle piume della colomba; vien giù sorretta dagli angeli, si posa sull’acqua, silenziosamente. Poi, alle prime luci l’uomo di guardia sul castello di prua gridò: « Terra! ».
* * *
Questo, Dino, il tuo libretto. Io so come tu volevi fosse la stampa e come la copertina. Invece... solo un piccolo quaderno è rimasto, con scritto nella prima pagina: « Storia meravigliosa di Cristoforo Colombo ». Il resto, le parole che dovevano abbellire e dar vita alle tue fantasie te le sei portate con te, sotto terra.
Enrico Emanuelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 22.06.32

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Citazione: Enrico Emanuelli, “Il "Cristoforo Colombo" di Dino Gorrone,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/539.