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Titolo: Pelle d’asino

Autore: Nino Savarese

Data: 1932-06-08

Identificatore: 1932_263

Testo: Pelle d’asino
L’asino moriva disteso nel prato, con la testa affondata nella sulla. Gli uccelli trillavano, fischiavano, cinguettavano sui rami che gli pendevano sopra. Qualche coniglio, piccolo, delle nuove figliate, si affacciava dalla siepe, si rintanava velocemente.
Nugoli di mosche, grosse, lucide, colore dell’acciaio, scendevano a camminare sui grumi di sangue del costato.
Il contadino mentre zappava ne seguiva col pensiero l’agonia: la moglie muovendosi nelle sue faccende si asciugava qualche lacrima, ed alla vicina, che era andata a domandarle in prestito il lievito per il pane, rispondeva che piàngeva per l’asino moribondo, per la perdita che facevano, per la sventura che li perseguitava...
* * *
Alle narici del padrone giunse il puzzo della carogna: ordinò si togliesse dal prato: « Buttatelo nel burrone che non si senta più questo puzzo che arriva alle case ».
(« Ora mi resta a piedi, questo disgraziato, e non potrà più fare il suo servizio, e un’altra bestia, quest’anno, non la potrò comprare! »).
L’asino morto non si vedeva più: si era tanto appiattito sul terreno che quasi scompariva in mezzo all’erba: solo il puzzo faceva da spia da lontano.
La carne cominciava a volare via, in quel fiato nauseante che si mescolava, nell’aria calda, agli altri fiati; del fieno mietuto, dei fiori delle siepi, dello sterco dei bovi.
* * *
Nel buttargli la corda al collo, il contadino si riempi gli occhi di lacrime: l’aiutavano la moglie, la vecchia madre, il figlio più grande. La piccolina guardava con grande attenzione: (una cosa nuova; una bestia così grossa, ferma e abbandonata, con gli occhi aperti ma spenti: certo una cosa grave, assai strana « la morte », ma che si lasciava raccontare senza difficoltà agli altri bambini, raccolti sul ciglio dello stradone: « A noi questa notte ci è morto l’asino »).
* * *
Il figlio grande cominciò a dare la voce perché si facesse lo sforzo concorde. Nel tirare la bestia per il collo, tutti furono contrariati dal peso impreveduto. Non pensavano, ormai, che ai modi di diminuire il loro sforzo, con un certo dispetto e una leggera impazienza di terminare quella faccenda.
Le donne davano scarso aiuto, per quanto nel tirare piantassero le gambe allargate sotto le gonne, le quali ondeggiavano al vento.
La bambina andava dietro lo strano corteo, a un passo dalla coda dell’asino, e l’andava toccando delicatamente con un ramoscello che teneva in mano. Nella discesa, tutti sentirono, con piacere, diminuire lo sforzo e la bambina dovette allungare il passo: ora agitava con più forza il ramo e lo batteva sulla groppa come volesse incitare la carogna a correre: questa, ribaltando sulle pietre, faceva delle strane mosse con le gambe rigide levate in aria e col collo: la piccola, sempre dietro, si mise a saltare come se lo accompagnasse danzando e ad un tratto, sola sola, si mise a ridere.
* * *
Sul ciglio del burrone gli tolsero la corda dal collo, e i due uomini lo spinsero a pedate, mentre le donne ritte e ferme trattenevano il respiro. Poi tutti presero la via delle case asciugandosi il sudore; senza badare alla bambina che rimase sul ciglio del burrone ad agitare il ramoscello, sola sola, sullo sfondo del cielo, come se facesse cenni da una riva all’altra di un abisso di luce.
* * *
L’odore attraversava più forte l’aria come una cosa carnale, e i cani, i lupi e le volpi, che vagavano fiutando per la contrada, abbandonati alle risorse della terra, vi aprivano contro le narici.
Il cane di casa, però, che era stato per tanto tempo compagno dell’asino, nella stalla e nei notturni riposi del pascolo, restava a mezza strada e non si avvicinava: abbaiava agli altri animali come volesse proteggere il compagno morto, con guaiti lunghi e lugubri.
Un corvo scese dal cielo rapidamente, come se rovinasse dall’alto, con l’ombra delle aiacce nere, e gli beccò un occhio: quello di sopra, che pareva guardasse i monti.
* * *
I due giovinastri si accordarono e vennero verso il tramonto, muniti di due coltellacci, e sudavano nel voltare e rivoltare la bestia per scuoiarla. Allorché infittì il buio, non si vide che il chiaro dei loro torsi scamiciati ed il barbaglio delle lame. Rimase solo un pezzo di cuoio intorno al collo, e sui quattro zoccoli quattro anelli, come manopole di pelo.
La carne rimase scoperta e sbrindellata e ad essa tornarono gli animali durante la notte e poi ogni giorno. Solo il cane di casa non ne assaggiò mai un boccone: se ne andava ogni giorno verso il burrone e da lontano abbaiava agli altri che mangiavano per lunghe ore, staccandosi poi quasi umiliati col muso insanguinato. Dal quale indizio, i contadini delle masserie del contorno si accorgevano del pasto che facevano i loro cani e, vedendoli tornare, a sera, stanchi e con le pance gonfie e quelle macchie di sangue sul muso, li scacciavano, ingiuriandoli o berteggiandoli grossolanamente.
* * *
La pioggia lavò il sangue e gli umori dalla carcassa e li condusse dentro la terra: le radici delle piante se ne confortavano nel buio sotterraneo. Il corpo della bestia morta si disciolse come una nuvola nera e pesante che si fosse posata sulla terra; e scomparendo ne rimase solo quel poco di liquido imprigionato nelle nuove vene delle radici che risaliva nei vasi degli steli delle erbe.
* * *
Ancora, dopo mesi, i cani si avviavano lenti e sfiduciati verso quelle ossa sparse, ormai sciolte da ogni forma: andavano per abitudine, e come per consolarsi col ricordo; ma, una volta lì, sostavano in lunghi e pazienti rodimenti attorno agli ultimi sfilacci già secchi.
Ora, le ossa bianchissime parevano pietre, sparse tra le altre pietre, come i frammenti di una statua di marmo che fino a quel punto si fosse celata sotto il velo della carne fetida.
* * *
Scomparso del tutto, resta nel fiato delle parole. E con qualche brano della sua pelle incastratosi nell’uso quotidiano.
Contadini parlano in crocchio in un giorno di festa estiva, che tutti comprano i gioghi, le barde e quegli scarponi a sandali che si mettono per zappare. Dice uno: « Il meglio è farli di pelle d’asino. Non ce n’è un’altra che resista di più; una volta ne scuoiai uno abbandonato in un burrone, ne feci la cinghia di questa barda ed il legaccio dell’aratro; mi durano ancora dopo vent’anni!... ».
Da lontano si ode il tamburo che va avanti la processione della Madonna ed è fatto anch'esso di pelle d’asino.
Cammina ancora per le vie del paese. Nel vuoto della cassa si ridesta una voce e ai colpi che non dolgono più la pelle si fa una risata lugubre e borbottante.
Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 08.06.32

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Citazione: Nino Savarese, “Pelle d’asino,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 13 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/519.