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Titolo: Gente serena

Autore: Fabio Tombari

Data: 1932-04-13

Identificatore: 1932_183

Testo: Gente serena
La casa dei vecchioni è proprio sulla spiaggia del piare, a una sassata dal porto.
Quando nei meriggi d’estate batte la maretta calda di scirocco, stando in quella casa par di abitare nei mari del sud, con una sedia a sdraio sotto quattro palme, un barilotto sfasciato su delle casse dì birra, l’odor dei maccheroni con le vongole in cucina, un par di sigari e una grand’aria di mare. Di sera, il grammofono in giardino canterà le canzoni delle Hawai, mentre la cameriera, con le sottane tirate su, ti mesce una tazza di caffè ben abbrustolito. Ad aprire le poveracce per la pastasciutta c’è da trovarvi le perle.
Quand’è l’autunno invece, che la bora butta spruzzi e arrugginisce i1 cancello e gli alberi, stando lì nel salotto disuso sul giardino, sotto un brigantino in miniatura, parrà di stare in Finlandia. Il barile sfasciato ha tutta l’aria d’un busso d’aringhe, e la vecchia, sta pur sicuro, tien nascosto un grosso cucchiaio di legno, per l’olio di fegato di merluzzo, da purgare il vecchione quando ha bevuto troppo o quando la nebbia glielo minaccia di reumi.
Certo è che sono felici i due vecchi in quella casa dove la stufa d’inverno consuma trenta quintali di legna.
Soli con una giovanetta di Ragusa che fa da cameriera e da figlioccia, vivono rievocando la loro giovinezza nel Transvaal dove si sono conosciuti.
Nella saletta da pranzo accosto alla stufa, sotto'un salvagente e un barometro, c’è la poltrona del vecchio, per la fumata e il pisolino dei frati. Accanto alla poltrona un tavolinetto regge quattro o cinque pipe chioggiotte già cariche di Maryland, due cassettine di tabacco, e una mezza dozzina di scatole di fiammiferi svedesi.
Il vecchio non c’è: ha mangiato, s’è appisolato un po’ e adesso è andato all’osteria dello squero a fare un tresette coi calafati.
Ritorna verso le sei ad assistere alla cucina della cena.
— Perché — dice la ragazza — il signor Serafino ci tiene molto al mangiare e gli rincresce di non poter tenere una cantina.
— Oh, poveretto! E perché non può tenere la cantina?
— Perché il sotterraneo è sotto il livello del mare e come fa l’alta marea ci cresce un metro d’acqua. Non
può tenere la cantina ma fa provvista di sottaceti, mostarde, salami e prosciutti che è una bellezza. Guardi.
— Ho già visto. Entrando infatti mi pareva d'entrare in cambusa. E la vecchia dov’è?
— La padrona ci ha da fare coi gatti. Quella gattaccia selvatica che han portato con loro dal Sud Africa e che va a rubare le galline anche sulle barche, ha partorito. S’è sgravata di due bei gattini bianchi e par che abbia messo giudizio. Il vecchio dice ché s’è europeizzata. Dio volesse! Non ci si poteva combattere. Anche il signor Podestà ha protestato per quella gatta. Ma è tanto carina se vedesse!
— La conosco. Ho avuto questa fortuna un giorno che è venuta a portar via una pollastra nel mio orto.
— Vuol vedere le camere? — mi dice la ragazza.
— Andiamo a veder le camere.
Mi porta prima sul terrazzo dove i due vecchi, d’estate, godono il fresco, la vista dei bagnanti che si rotolano lungo la spiaggia, e, di sera, il ballo al Kursaal. Lui, il vecchio, ci vede comodamente anche a occhio nudo, ma la vecchia ci ha il canocchiale: punta il canocchiale sul Kursaal e guarda come Nino Bixio quando voleva dar saltare il Vaticano. Ogni tanto tutti e due mangiano le caramelle che si regalano a vicenda, o fanno un gran citrato. — Perché sono molto ghiotti e ogni tanto si purgano —mi dice la ragazza. — Certe Volte mi fanno ridere.
E mi mostra la sua cameretta.
— Qui dormo io.
Mi affaccio. Da una parte ci ha lo stemma di Ragusa, dall’altra la Madonnina del Carmine, e in faccia al letto un leone d, i San Marco che pare un gatto forestiero.
— E quest’altra è la camera dei padroni.
Un gran letto matrimoniale sta a pancia all’aria con tutte le finestre aperte sulla marina, che pare goda il fresco.
Nel mezzo fra i cuscini c’è una busta di tela con dentro le due camicie da notte con la sigla. A sinistra, sul comodino della padrona, vedo quattro grossi rosari di legno duro, due libriccini di madreperla, e un moccolotto acceso davanti a un San Francesco tutto nero con una poesia inglese.
— E’ il San Francesco dei negri. L’han portato dal Bechuana Land.
Dall’altra banda del letto c’è il comodino del vecchione coi sigari è le pipe. Ho contato ventidue mezzi sigari, cinque scatole di fiammiferi, una borsa di tabacco e tre pipe.
— Cosa fa, fuma sempre?
— No, fuma alla mattina, alle quattro appena si sveglia. Fa tre o quattro fumate, s’alza verso le sei, si mette il cappotto e s’affaccia in terrazzo a studiare quel che fa il tempo, e torna a letto fino alle nove.
Dal letto pensa alla sua Africa del Sud, alla Colonia del Capo, allo Zululand, ai suoi compagni di fortuna e di galera. Ha fatto otto anni di lavori forzati il vecchione, per aver ingoiato i diamanti, poi quelli li ha digeriti, ha fatto la guerra coi boeri contro gl’inglesi, ha lavorato nelle ferrovie, nelle miniere d’oro, ed è tornato su.
Dal letto, dalle quattro alle sei e dalle sei alle nove, pensa alla gente che ha conosciuto, alla gente che va per il mondo, ai mari di molta gente.
Ripensa a come s’è imbarcato.
Da ragazzo a Napoli è scappato via nella carboniera d’una nave mercantile, per far la collezione dei francobolli. Voleva girare il mondo e da ogni paese si spediva a casa una cartolina o una lettera; cosi avrebbe trovato anche i francobolli della Terra del Fuoco, che, a dir dei ragazzi, ogni francobollo vale un milione.
Fuori s’ode stormire il mare come una pineta al vento, e il vecchione pensa e dà un bacio alla pipa.
Dove sarà ora quel negro cui ha schiacciato un occhio nella Città del Capo? Dove sarà Papel, quell’italiano che nella guerra boera diventò capitano e comandava la piazza di Giannisburgo?
Da fuori giungono i colpi sordi dei calafati che ristoppano un legno, e il vecchio fuma e dà un altro bacio alla pipa.
Che ne sarà di quel marinaio inglese che quando tornava in patria comprava ad ogni porto un pezzo di vestito ed una bottiglia di whisky, e sbarcava a Londra tutto elegante, ubriaco, con la giacca d’un tight, i calzoni bianchi, scarpe gialle, panciotto rosso e un gran cappello a cilindro?
Fuori è girato il vento. Le voci che giungevano dal porto si sono spente e vengono dalla spiaggia gli urli degli ortolani che tirano la tratta.
E di quell’altro bel tipo finlandese che a Para, in Brasile, nell’ospedale dei lebbrosi si fingeva malato di febbri per veder passare una suora? Poi anche la suora ammalò, prese il contagio delle febbri gialle e lui la curava. Finché anche la suora mori e la buttarono come gli altri, cucita in un sacco, dalla finestra dentro il Parò River che scorre sotto. E quel bel tipo di finlandese fuggi dall’ospedale, lasciò la rada e s’internò, schiavo degli indigeni della gomma, in un campo dell’Amazzoni: e forse a quest’ora canta sotto la luna la canzone d’un amore infelice.
Così pensa il vecchione per prender sonno.
E quando piove sta in letto con la vecchia fino alle dieci, e poi s’alza, prende il caffè, si lava la faccia in un secchio d’acqua di mare, prende l’ombrello di cerata verde, la cesta, e va in città a far provviste di polli e di pesce per il pranzo e la cena.
Di sera, nelle lunghe sere d’inverno, quando il mare fa paura, giuocano tutti e due, il vecchione e la vecchia, a rubamazzo. La cameriera è già andata a letto, la gatta ladra scavalca il cancello e va in giro nel vento a rubar le pollastre.
Fabio Tombari.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.04.32

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Citazione: Fabio Tombari, “Gente serena,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/439.