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Titolo: Quando non si è più giovani

Autore: Adone Nosari

Data: 1932-03-30

Identificatore: 1932_147

Testo: Quando
non si è più giovani
S’ha un bell’essere novecentisti e magari antistrapaesani, ma chi come me è maturato in campagna ove riposano i suoi morti e le sue memorie, non può non sentire dolce malinconia tutte le volte che gli incorre di riandare con il cuore ai cari luoghi del passato, quando la vita, che allora pareva veloce, a vederla oggi in giusta prospettiva ci appare divinamente lenta. Reazione del nostro spirito stanco contro la febbre meccanica del mondo moderno? Non so. So che c’è da ringiovanire ad aprire lo scenario e metterci dentro noi stessi e le cose nostre.
Ma, ahimè!, la realtà è ben altra se molt’acqua è passata sotto i ponti. Quando si rievocano gli anni e si cerca di toglierli dalle nebbie accidiose del tempo remoto, vuol dire che si è vecchi o quasi. Però, nonostante questa triste constatazione e tutto il bene che mi pare fosse in quel mio passato, non tornerei indietro a nessun prezzo, perché fra trentanni, mi troverei al punto di prima senza possibilità di fare una seconda volta il cammino. E poi sarebbe come una minestra riscaldata, ed è buona cosa tornare indietro negli anni con il pensiero piuttosto che tornarci di persona.
Bizzarre fantasie che sono di tutti e quasi di tutti i giorni; perché — per adoperare le parole di Freud tanto di moda — nella vita psichica nulla può tramontare di ciò che è stato una volta formato e in qualche modo perdura, si da poter essere portato alla luce quando lo si voglia.
E allora — cambiate voi i nomi dei paesi e prendetevi quelli che vi sono familiari, perché la sostanza della rievocazione è la stessa per tutti ed è di natura universale; — e allora venite con me a rievocare la fiamma che mi vide nascere e mi ospitò durante gli anni dell’età più bella, quando, divorata l’adolescenza ambigua, la prima giovinezza mi dava i primi batticuori d’amore, le prime ansie, i primi dolori e i primi piaceri profondamente coscienti!
Allora — quanti anni trascorsi! — non conoscevo ancora le grandi città: il mio spirito sentiva Roma, Torino, Palermo, Milano nel regno di Gog e Magog. Familiari mi erano invece Mantova da cui provenivo e Modena a cui andavo ad apprendere la scienza, il goliardismo, l’amore; soprattutto l’amore. Poi Reggio e Parma e Bologna erano le mète di raid ciclistici; e quando tornavo da queste care città nelle mie due culle, mi pareva di avere ampliati in modo incommensurabile, tanto erano meravigliosi, i confini, della mia vita presente e avvenire e che di là da essi non ci fosse più nulla di veramente degno di essere ammirato, esclusa Roma remotissima.
Le stagioni devolvevano con una solennità che non ho più mai conosciuta. non diversa — se m’è permesse rendere plastico il mio pensiero — dal moto apparente della campagna guardata dal treno in corsa. Oggi me le figuro, per uno strano effetto prospettico, distese in un mondo fiabesco, soffuse di malinconia e di dolcezza edaci, disperse ne’ loro elementi e pure unite, sbavate ma nitide, come certi paesaggi sotto la pioggia fine fine illuminata dal sole.
* * *
Eccole le quattro stagioni della mia giovinezza che hanno soltanto attributi emiliani o lombardi, ma che diverse non sono da quelle che fondamentalmente può ricordare, per esempio, un piemontese sradicato dalla sua terra e in vena di rievocazioni liriche.
La primavera esce stenta, in modo fanciullesco affaticata, dall’inverno. Qua e là, perdutamente nel piano, un mandorlo, un pesco, un ciliegio, che tenta i suoi colori sbiaditi nel grigio diffuso; poi una siepe di biancospini che sfuma il suo verde tenerello prima di buttar fuori i fiori candidi, poi i polloni delle viti atteggiati a fontanelle immote sui sarmenti contorti, poi i fiorellini effimeri che durano un solo giorno durante il quale avviene la impollinazione, e gli epinitti che hanno la vita di una notte; quindi il grano a fior di terra, il potare e il sarchiare dell’uomo, infine la grande sinfonia del verde giovane al cielo mutevole che prelude all’estate.
Il sole scotta e all’ingiro è la grandiosità torrida delle messi che maturano. Le strade deserte e bianche accecano di luce e di polvere, le cicale cantano senza requie, l’afa sta ovunque, e lo spazio, se fosse possibile racchiuderlo nel cavo di un orecchio, risuonerebbe di voli di insetti voraci e di minacce di temporali che poi scoppiano all’improvviso a seminar la rovina per mostrare all’uomo quale valore ha la bontà della vita. Il grano viene mietuto e, mentre il granturco erge il càlamo, lascia superstiti le stoppie su cui una mattina, prima del sole, passeranno l’aratro non ostile, il passo grave del bue e il canto del bifolco. Le giornate si abbreviano, l’assiolo canta là in fondo, il cielo muta spesso di viso e le prime foglie gialle appaiono sulle viti che, a festoni, cariche di uva prossima alla maturazione, si associano agli olmi.
A poco a poco, il granturco si inaridisce e si prepara a dare le pannocchie da scartocciare poi sull’aie durante le sere non più calde e non ancora fredde, intanto che le vendemmie fanno sbaldore e i campi arati, i tappeti erbosi, i sovesci scintillano la mattina presto di goccioline di rugiada e le strade sono soffici sotto le ruote dei carri e il trotto dei cavalli. Automobili allora, niente; né meno l’ombra.
Le foglie al vento ràbido cadono con una fretta sconosciuta altrove. Le nebbioline vaghe azzurrognole accidiose del primo mattino e della prima sera si fanno più spesse; la campagna, dopo la vendemmia e la coglitura del granturco, appare come dopo un sacco; le siepi di biancospino sono rosse di crateghi, i prati tendono al gialliccio, le concimaie fumano, il seminatore passa di campo in campo a gettar la semente, i buoi non escono più che per abbeverarsi sotto i porticati attigui alle stalle. Il sole, giorno per giorno, pare che rovini verso la notte e che solo nella notte trovi la sua mèta.
L’inverno! Lo spazio s’è fatto più ampio, non ha più confini veramente tangibili; le nebbie densissime, che si tagliano con il coltello, che sovente durano tra cielo e terra, basse basse, per delle settimane, aiutano a dare il senso dell’infinito: che c’è di là da quel velo fluttuante che mi isola, e di là ancora, e più in là, più in là?... Le voci arrivano ovattate, hanno vago sapore di misteriosa lontananza priva di fisonomia; gli alberi stecchiti, sfumati ne’ contorni, che impallidiscono sempre più a misura che si allontanano e finiscono per svanire e immergersi nel « più in là » ignoto, sono ornati di brina o di galaverno — a secondo se la nottata è stata nebbiosa o serena — che al vento cade a pezzi quando il freddo « molli ».
Un bel giorno, il cielo è una cappa di piombo, il vento si fa più pungente, macina la neve, e allora gli arabeschi, che il freddo ha costruito sui vetri, si dissolvono lagrimando silenziosamente. E la neve cade con una gioiosità cosi familiare che fa lieti gli uomini e le cose, finché il cielo non si fa fosforescente perché dietro ha il presagio del sole. Per le strade dei paeselli gli spalatori si dànno un gran daffare con la serenità dei contadini che accumulino un prodotto prezioso della terra, i ragazzi guerreggiano e i cani, giovanissimi, razzolano nella neve che non conoscono, nati come sono troppo tardi o troppo presto.
I giorni passano e si sono divorati il Natale raccolto e il Carnevale provincialmente chiassoso. Il fiato che esce dalle bocche non lo si vede più; la neve, superstite ne’ campi e sui tetti, dimoia al sole o al cielo leggermente coperto e lascia vedere squarci di terra negra e di prato.
La primavera butta fuori il capino... E il ciclo ricomincia.
* * *_
Ed io non percepivo che mi ero invecchiato di un altro anno; non lo percepivo, perché davanti a me non poteva esserci che la giovinezza eterna, e quanto possedevo l’avevo avuto in dono senza che l’avessi chiesto né potevo sospettare di perderlo. Il desiderio di avere una cosa e il timore di perderla hanno la stessa origine negli anni maturi di saggezza, appunto per la ragione che mentre la si desidera, e si spera di conseguirla, si teme di doverla poi perdere irreparabilmente.
Si: viene a tutti il tempo della saggezza: ed è venuto anche a me.
Mi guardo dietro le spalle e vedo il gran bene perduto che ha i toni e le voci della feconda campagna emiliano-mantovana; osservo davanti a me e non vedo nulla, perché non sono indovino assistito da Giove né so leggere i babilonici numeri; ma mi illudo di avere ancora forza e di tenere in pugno il mio destino di un non più molto lungo domani... Ahimè! Apro la mano che tenevo fortemente stretta in atteggiamento di lotta e non ne esce che del niente che si dissolve nel gran tutto della immisurabile infinità di niente.
Adone Nosari.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 30.03.32

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Citazione: Adone Nosari, “Quando non si è più giovani,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/403.