Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Sgomberi

Autore: Nino Savarese

Data: 1932-02-24

Identificatore: 1932_131

Testo: Sgomberi
Si conosce quando gli uomini apparecchiano i loro nidi in qualche punto degli alti fabbricati, dal loro andare e venire, come si vede fare ai piccoli uccelli, all’ascella dei rami.
Lo sparpaglio di frasche nella via, il colore del legno nuovo, l’odore delle vernici, il luccichio degli ottoni, spargono in quel punto un’aria di preludio, un’incognita di principio, una breve freschezza.
Più tardi, davanti gli stessi portoni, si spiegheranno quelle medesime cose, già velate dall’uso, e, pare anche, dalla delusione, e qualche meschino dettaglio dell’arredamento porterà per un istante alla luce della via la patita intimità degli interni inconfessabili.
I grandi furgoni delle Società di trasporti attraversano la città carichi di tutti gli oggetti che gli uomini ammucchiano nei loro ricoveri: di legno, di ferro, di stoffa, di latta, di oro finto. E gii uomini sudano nell’inutile fatica di contare e confezionare tutte quelle loro robe, per portarsele appresso, da un capo all’altro della città, da una all’altra contrada.
Quando si spezza il filo di certe continuità, che nessuno pensò mai potessero finire; quando la storia di una famiglia o di un individuo si ferma sull’ultimo anello, della morte o di una partenza, gli oggetti della casa prendono proporzioni enormi. Allora anche i mobili muoiono e i loro cadaveri ingombrano le camere, diventate troppo anguste. Logori, unti dall’uso e consunti, nessuno li vuole: si trova difficoltà a svenderli, non c’è dove nasconderli. I torvi speculatori giungono lenti e scuotono il capo, sprezzanti, fingendo di non voler comprare. Si vorrebbe che quegli oggetti ingombranti e molesti fossero ridotti in polvere come la carne degli uomini.
Intanto la gente nuova si affretta a giungere; la storia della nuova famiglia già forza la porta col carico degli oggetti nuovi.
La vanità e l’orgoglio, che seppero escogitare tante dilazioni e pretesti, urtano alla fine in un termine segnato dalla Provvidenza: il tempo si immiserisce e restringe in una data di fine mese, e la casa signorile apre, per l’ultima volta, i suoi battenti ad un ricevimento carnevalesco: una folla radunata nella via da un avviso di asta pubblica, circola con un’aria di vendetta nelle sale della Marchesa, precluse fino ad ora da cento divieti; può vedere finalmente come anche qui tutto è finito in nulla; può toccare con mano quelle cose morte: gli arazzi, i tappeti, i legni intarsiati, l’argento lavorato. Un uomo, alto, nel mezzo di quella mascherata, suona il gong per fugare gli ultimi fantasmi é mostra ai presenti, con aria di quaresimalista, come tutto sia tornato polvere nella casa della signora Marchesa: quel po’ di polvere di banconote che è ammucchiata sul tavolo.
In certe case di provincia, dove i ricchi possidenti ammucchiano oggetti da riempirne tutte le camere buie e fuori mano, allorché giunge il giorno in cui le vecchie mani si aprono, le chiavi cadono con un tonfo di liberazione. Allora si fanno, della biancheria ingiallita dentro le casse di noce, tanti mucchi quanti sono gli eredi sospettosamente raccolti in cerchio, e poi si continua a leticare con gli occhi sui vecchi canterani, sui letti di ottone, sui servizi di argento, e le mani protese sulle piccole scatole piene degli oggetti d’oro, che tante brame e gelosie e diffidenze tennero prigionieri in un alone di mistero e che compaiono come scavati da sotto la terra e mostrano il loro giallo opaco, e come attonito, e la grazia fuori moda dei loro disegni.
Ma attorno al letto del contadino, si parla un linguaggio più aperto; i famigliari, tirando il moribondo, chi per un braccio, chi per un piede, gli gridano quello che vorrebbero lasciato: « A me la corda da caricare », « A me le due corbe della stalla » e « Il moggio a me », « A me gli stivaloni... » mentre qualcuno nel vicolo, dal quale si vede il letto di morte, ammonisce ed esorta: « L'anima a Dio e la roba a chi tocca ».
Allorché muore il vecchio solitario nella sua camera d’affitto, l’agguato contro le cose che egli possiede arriva nelle case vicine ed anche nella via. Gli oggetti, sciolti dalla sospettosa vigilanza del padrone, pare vogliano fuggire quella assurda solitudine, secondando l’impazienza dei trafugatori. Poi, siccome occorre il danaro per sotterrare il morto, bisogna vendere tutto quello che rimane: e giunge un uomo con un sacco e un carrettino a mano. Il portinaio guarda sospettoso dal suo sgabuzzino e forse si duole di essere stato troppo discreto, ma parla con disprezzo di quelle morti senza cerimoniale, che tolgono decoro agli stabili, e ai portinai la mancia d’uso.
Il carrettino si allontana con le ultime sedie appese ai piedi del tavolino rovesciato e sopra tutto il carico troneggia il sacco pieno di quelle cose che non si lasciarono legare dalla corda: vecchi colletti inamidati, cappelli unti, un manico di ombrello, due cerniere di ottone, alcuni volumi rilegati, quattro posate, oggetti di cucina...
Attraversa vergognoso e in fretta il corso, infila un vicolo sudicio, si perde nel buio di una vasta bottega, già piena di altri oggetti vecchi, come un ossario.
Ma quelle vecchie e sudice cose servono ancora a chi rimane legato alla terra, mentre chi le abbandonò ne sembrava liberato ed alleggerito, e gli uomini continuano a chiederle ed a contrattarle. E la terra gira portando il suo enorme carico di oggetti, del quale non può disfarsi; che, estenuati nella decrepitezza e scomparsi nel sudiciume, risorgono dalle foreste e dalle viscere delle miniere, sotto le instancabili braccia dell’uomo.
***
Ma dietro la vetrina dell'antiquario, nella via più elegante della città, il vecchio mobile, senza casa e senza padrone, si offre pudicamente alla curiosità dei passanti, immerso in una luce dorata, sospeso in un’aria di attesa. Non teme più il tempo: nelle sue fibre, sembra si sia fermato il processo della sua corruzione, e la preziosa crosta dei suoi intarsi sembra proteggerlo come una pelle incrostata di sole e di buona salute.
Il lucido cristallo lo separa dalla vita, lo protegge da ogni contatto e dalla mortificazione dell’uso. I suoi cassetti, i suoi sportelli, le sue maniglie, respingono ogni impronta ed ogni ricordo, anche quello, lontano, dell’operaio che vi infuse quel po’ di grazia che lo fa durare ancora, mentre tutti gli altri girano per le povere case, continuando a corrompersi.
Il giovine di bottega, ogni mattina, accarezza, con morbide piume, la sua preziosa inutilità, che resterà eternamente dietro quel vetro, in una sospensione del tempo.
Nino Savarese.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 24.02.32

Etichette:

Citazione: Nino Savarese, “Sgomberi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/387.