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Titolo: A teatro con i cinesi

Autore: Alberto Moravia

Data: 1937-06-07

Identificatore: 1937-38_21

Testo: Viaggio nell’Estremo Oriente

A teatro
con i cinesi
Attori che recitano per proprio conto e pubblico che ride chiacchiera e bivacca badando allo spettacolo quando ne ha voglia - Quello che si rappresenta
(Dal nostro inviato speciale)
Pechino
L’ingresso del teatro si trovava in una galleria in cui erano disposti i banchi di un mercato notturno. Smaniosi di trafficare e vendere, i cinesi non smetterebbero mai; a quell’ora tutti i venditori stavano ancora dietro le bacheche illuminate a giorno da bianche fiamme di acetilene. La galleria di ferro e di vetro, alta e sordida, risuonava dei loro richiami come una stazione; il suolo umido era sparso di torsoli verdi, di scaglie iridescenti di pesci, di frutta intere e marce; un agro odore di cucina si diffondeva da certe marmitte fumanti intorno alle quali si radunava ancora parecchia gente.
Aria di squallore
Si passò tra piramidi di arance e batterie di anatre laccate, tra i fornelli dei cuochi e i tavolinetti dei chiromanti, tra le distese di ciabatte e i mucchi di zucchetti di seta e si andò ad un braccio minore della galleria dove certe scritte rosse fiammeggianti sopra una porta si specchiavano nell’asfalto allagato. Il botteghino era una cabina di legno scuro e scheggiato sulla quale erano stati inchiodati i fogli bianchi e rossi del programma, nell’ingresso c’erano biciclette, masserizie sfondate, una scopa e un secchio, sedie di paglia e molti cinesi intenti a fumare e a chiacchierare.
Ci volle del bello e del buono per farsi capire, i biglietti, con quella meticolosità burocratica di un popolo governato fino a ieri da una classe di letterati, vennero firmati, timbrati e controfirmati, finalmente uno qualsiasi di quei cinesi ci fece cenno di seguirlo e ci precedette su per una ripida scaletta di legno, tra ragnatele e polverosi soppalchi. Dove avevo visto la stessa aria di squallore e di negligenza, di luogo pubblico e burocratico? forse in qualche cinema popolare e provinciale in Italia, forse in quelle disgraziate ricevitorie, in quegli uffici di stato civile che, ancora alloggiati nelle vecchie sedi in attesa del palazzo nuovo e marmoreo, traggono pretesto dalla provvisorietà della dimora per abbandonarsi completamente e per l’ultima volta al disordine, alla polvere e all’orgia delle scartoffie. Si sentiva in quell’ingresso e per quella scala che da anni le cose andavano benissimo, senza cioè che un soffitto crollasse o che la scala medesima cedesse sotto i piedi; e tanto bastava ai proprietari del teatro. È questo del resto l’aspetto « ancien regime » della Cina: dove si va avanti adoperando i vecchi edifici, le vecchie usanze, le vecchie stoffe fin che si può.
Una bolgia calda e promiscua
Intanto, sempre facendoci cenno di seguirlo, la nostra maschera si inerpicava su per la scaletta e ci introduceva nel teatro. Eravamo in quello che da noi viene chiamata la galleria. Un soffitto basso di un bianco scurito dalla polvere, colonne di legno sulle quali la vernice si staccava in pellicole scoprendo la fibra secca e grezza, e più in là, oltre l’estrema fila di spettatori, la voragine fumosa e gremita della platea.
I posti consistevano in scomode scranne di legno. Sugli schienali, per l’uso della fila di dietro, correva una mensola; su questa mensola la maschera venne subito a deporre una bianca teiera e due tazze. Osservai che sulla medesima mensola altri spettatori addirittura mangiavano: dovunque si vedevano cartocci disfatti, fette di salame, semi di popone e altre vittuaglie. Notai ancora che il teatro era affollato di povera gente, le donne con i bambini piangenti in braccio, gli uomini nei vestiti del lavoro con il cappello in testa. Tutti mangiavano, bevevano, si spurgavano, sputavano, chiacchieravano; tutti parevano essere convenuti nel teatro per qualche altro motivo che non il dramma che si stava rappresentando. E il teatro intero scuro e sporco, con quei soffitti densi di polvere e d’ombra, quelle colonne smilze, quella congerie di gente animata e rumorosa, pareva una gran bolgia calda e promiscua. Inservienti passavano con pannilini bollenti che gli spettatori si strofinavano sulla faccia e sulle mani; poi arrotolavano questi pannilini e se li lanciavano con grande destrezza. Di modo che durante tutta la rappresentazione non cessai un sol momento di vedere questi pannilini arrotolati volare per l’aria, sempre afferrati a tempo dagli angoli più sperduti del teatro.
La vista di questo teatro così singolare, pieno di una folla tanto diversa da quella europea, mi aveva sul principio impedito di fissare la mia attenzione sopra la scena dove gli attori, altrettanto noncuranti che gli spettatori, continuavano a recitare tra il fracasso delle conversazioni e la generale disattenzione. Ma, calmata la mia curiosità, dallo spettacolo della sala passai a quello della scena.
In apparenza questa era simile a quella dei teatri europei; vasta e profonda, con le quinte dalle quali entravano e uscivano gli attori, e i lumi allineati lungo la ribalta. Ma la gran differenza stava nel fatto che, oltre gli attori, riconoscibili dai vestiti ricchi e bizzarri, si trovavano sul palcoscenico una quantità di altre persone che nulla avevano a che fare con la rappresentazione e che in Italia di solito o si nascondono dietro le quinte o stanno a' guardare in platea. Anzitutto molti spettatori privilegiati (amici degli attori? parenti? ) i quali se ne stavano comodamente seduti tutt’intorno il palcoscenico come nelle stampe francesi del ’600 la corte del Re Sole intorno gli attori di Molière; poi, su alti sgabelli, un gruppo di suonatori con i loro strumenti discordi e clamorosi; finalmente macchinisti, inservienti, e anche qualcuno che non era spettatore nè addetto allo spettacolo, come per esempio una bambina straordinariamente piccola e vivace, molto simile alla figuretta luminosa che passa tra le gambe dei soldati nella « Ronda di notte » di Rembrandt, la quale ad un certo momento attraversò saltellando la ribalta e scomparve dietro le quinte.
Tutta questa gènte faceva i suoi comodi, cioè andava e veniva, rideva, chiacchierava; ma gli attori non ne parevano disturbati e continuavano come nulla fosse a recitare.
Simbolismo e immobilità
E qui si tocca un carattere specifico e importante del teatro cinese: il suo disprezzo per ogni specie di verisimiglianza e di realismo, il suo simbolismo e la sua immobilità. Non so che specie di dramma si stesse rappresentando. Ma il fondale, sul quale erano dipinti un ramo di melo fiorito e un volo di aironi sopra le acque di un lago, certo nulla aveva a che fare con il dramma stesso. Nel momento in cui guardai, non c’erano sulla scena che due attori, uomini ambedue sebbene uno di essi interpretasse una parte di donna. Vestiti con lunghe vesti bianche rosse e dorate, le teste dipinte e acconciate in maniera complicala e bizzarra, le maniche prolungate da certi veli vaporosi che gli battevano lungo i fianchi e si trascinavano in terra, impennacchiati e colorati, essi spiccavano singolarmente tra la gente sciatta che popolava il palcoscenico. Ma non tanto per i loro costumi fastosi quanto per una qualità violenta e fissa di artificio: erano cioè maschere e non personaggi.
Allo stesso modo dovevano spiccare negli anfiteatri, tra le follé greche e cretesi, gli attori dalle fisse maschere burlesche e tragiche.
Questi cinesi non erano mascherati ma il loro trucco tendeva a produrre quegli effetti grotteschi e statici che sono propri alle maschere. Avevano gli occhi bistrati con certi segni neri che ne prolungavano la forma obliqua verso le tempie, sulle guance un rosa vivo che sfumava in un bianco gessoso, sulla fronte certe strisce ondulanti e variopinte che ripetevano la curva delle sopracciglia, in luogo di bocca una rossa e patetica smorfia parlante. Stavano ritti l’uno di fronte all’altro, l’uno parlando e l’altro ascoltando. Ma quello che parlava pareva salmodiare, lamentosamente, ora levando la voce come in una nenia dolorosa ora abbassandola fino ad un sommesso miagolio. E sempre si accompagnava con certi belli e armoniosi gesti delle braccia e delle lunghe e bianche mani; gesti, seppi dipoi, regolati da norme secolari. Cantava, si lamentava, leggiadramente discorreva, sempre in un tono di falsetto curiosamente patetico; e intanto l’orchestra con i suoi timpani i suoi piatti e i suoi tamburi faceva il più sgradevole, inopportuno e stonato fracasso che avessi mai udito in vita mia.
Poi ecco l’attore che parlava andarsene ad un tratto dalla scena, con passi ondulanti e armoniosi, mettendo un piede avanti all’altro e dimenando alquanto le anche e le spalle, movenze anche queste fissate da secoli secondo regole tradizionali. L’altro attore, rimasto solo, si lamentò ancora un poco in tono misterioso e fatuo; poi, agitata una bacchetta ornata di stracci, levò lentamente una gamba: voleva dire che montava a cavallo. Subito due inservienti che sbadigliavano seduti in fondo alla scena, si presentarono sorreggendo un piccolo fondale non più largo di un paio di metri sul quale era dipinta una porta e delle mura. E così capii che l’attore era un cavaliere e faceva il suo ingresso in una città.
Il linguaggio delle maniche e dei passi
A questo punto le quinte si sollevarono e apparve una processione di otto uomini vestiti di rosso e armati di partigiane: soldati. Questi otto si disposero intorno una misera tavolina di legno bianco: era il trono. Comparve allora un gran bacalare di personaggio di magnifica, terribile e corpulenta apparenza, riccamente ammantato di pesanti paramenti rossi verdi e dorati, con tante banderuole appiccate alle spalle e il viso trasformato in una spaventosa maschera dall’immensa fronte bianca e rossa, dagli occhi di fuoco e dalla barba nera. Costui entrò con certi strani passi laterali e maestosi come se avesse voluto mostrare ad ogni costo le ricche pantofole; giunto in mezzo alla scena declamò poche parole in tono di cavernosa minaccia; quindi riuscì sempre con il medesimo passo, seguito dagli armigeri. Ricominciò tosto il fracasso di piatti e di tamburi dell'orchestra; e tutta la platea risuonò di battimani; segno che la breve dichiarazione del barbone era piaciuta.
Poi vennero altri attori, e sempre si ripeterono le medesime dimostrazioni simboliche, le medesime rituali maniere di parlare, di muoversi e di camminare. Venni così a sapere che il moto delle lunghe maniche di velo è pieno di significati, essendoci non meno di venti maniere di agitarle: la Manica Piangente, Attenta, Respingente, Salutante, Risoluta, Riposante, ecc.; che le mani e le braccia obbediscono del pari nei loro gesti a norme precise e significative; che in fatto di passi non ce ne sono meno di sedici, come per esempio il passo per montare a cavallo, il passo per andare in barca, il passo del fantasma, il passo laterale, ecc. ecc.
Entrò una figura con la testa imbacuccata, gli inservienti diedero fuoco senza sotterfugio alcuno ad un pezzo di carta d'Armenia che affumicò la scena: e questo era uno spettro. Venne portato un baldacchino sotto il quale l’attore si mise a sedere: segno che stava a letto. Irruppero cinque uomini e si diedero a correre in tutte le direzioni agitando sciabole come invasati: assediavano una città. Entrò un attore con un piccolo remo: era in barca e remava. Poi con altri gesti legava la barca al molo e scendeva a terra. Ne venne un altro, salì ad un tratto tra la costernazione dei compagni sopra una sedia, saltò giù dall’altro lato e corse via: si era affogato in un pozzo.
Drammi vecchi di centinaia d’anni
Insomma il dramma era oltremodo romantico e composito, pieno di azioni violente e luttuose, inframmezzato di episodi indipendenti, di canzoni e di pantomime: qualcosa tra la tragedia spagnuola e il melodramma dell’Ottocento.
Mi fu anche spiegato che il teatro cinese è in prevalenza moraleggiante e didattico. Ecco infatti alcuni titoli: Il sacrifìcio di una moglie; Una famiglia di quattro virtù; La giustizia va in vacanza ma ritorna; La lealtà finisce sempre per trionfare; Le tasse eccessive sono più feroci delle tigri; L’imbroglione imbrogliato, ecc., ecc. E mi dissero che il repertorio è in gran parte composto di opere classiche, vecchie di centinaia di anni, a tutti note, famose per tutta la Cina. Di modo che la gente va a teatro piuttosto per la interpretazione che per la novità dei drammi rappresentati. Tutte queste opere sono scritte e recitate in cinese mandarino, di cui la grandissima parte degli spettatori non intende una sola parola. Ciononostante, come ebbi poi a vedere, i teatri sono sempre gremiti.
Il dramma al quale stavo assistendo seppi poi che si intitolava: « L’estremo saluto del Re Pa Wang alla sua favorita ».
Ma assistere senza capire alla lunga è noioso. Inoltre quel terribile fracasso dell’orchestra mi aveva stordito. Visto, dopo un paio d’ore, che si era ancora a metà della rappresentazione, finalmente mi alzai e lasciai il teatro.
Alberto Moravia.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 07.06.37

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Citazione: Alberto Moravia, “A teatro con i cinesi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 16 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/2340.