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Titolo: Giorno di nozze

Autore: Mario Sobrero

Data: 1932-12-21

Identificatore: 1932_415

Testo: Giorno di nozze
Diceva d’avere novantadue anni: forse se ne aggiungeva qualcuno. Era diventato piccolo, rientrato in se stesso; non più un dente; nel viso scavato la bocca si apriva e chiudeva come una scatola. Come poteva vedere con gli occhiuzzi così opachi? Se qualche volta raccontava di quando era soldato di cavalleria ed aveva fatte le campagne, nessuno aveva in mente ch’egli fosse quel soldato. Lo chiamavano di nuovo Carletto, come nell’infanzia.
Era tenuto in quella casa perché antico servitore della famiglia. Il padrone, discorrendo, sorrideva della sua longevità come d’un peso dal quale non dovesse mai liberarsi, ma era contento che durasse. Carletto era stato cocchiere, ora curava il giardino, vecchio quanto lui, che era in tondo al cortile sotto il cielo silenzioso. Un altro ometto con tanti anni addosso e cosi sano pulito, ancora tanto d’accordo con la vita, non era facile trovarlo. Tutta la gente della casa lo vedeva volentieri; egli però stava quasi sempre dentro il cancello: lo si sentiva lavorare con la zappa, con le cesoie, e non si capiva come potesse reggerle. Per le. grosse fatiche venivano uomini validi, ma con l’aria di ricever gli ordini da lui, per non dargli dispiacere. Si alzava presto, andava a letto al tramonto. Frutta del giardino se ne prendeva sempre per nasconderla, poi la dimenticava.
Quando si prepararono le nozze della nipote Silvia, fu deciso dai parenti che anche il nonno venisse al pranzo: era estate, egli godeva la solita salute, la sua presenza avrebbe fatta la festa più bella e sarebbe stata di buon augurio. La madre della sposa, figlia di Carletto, stava coi suoi a mezzadria in un podere sulla collina: il figlio del giardiniere, che faceva il vetturale, lo venne a pigliare con un carrozzino. Da qualche anno Carletto non era più uscito dal portone ed in principio batteva le palpebre alla troppa luce, sembrava non riconoscere il mondo. L’avevano vestito bene, d’un abito del padrone, accomodato, con una camicia bene stirata e con un nastrino nero per cravatta; un cappello nuovo di feltro non lo aveva voluto, s’era messo uno dei suoi cappelli di paglia da giardiniere, in buono stato. Attraverso la città e per il viale suburbano molti gli mandavano un saluto, sorpresi di rivederlo; egli non riconosceva nessuno ma udiva le voci e udiva le risposte del figlio, faceva il viso ridente, agitava le mani, con una vaga impressione di essere portato in trionfo. Sulla salita del colle si senti più tranquillo, prese a nominare i luoghi, le ville: contento, oltre che della festa alla quale andava, di riveder la campagna, come se non vi avesse mai più pensato ed ora la ritrovasse anche nella memoria.
Sull’aia del podere venne intorno al carrozzino — con gli sposi, ch’erano già tornati dal paese — la folla degli invitati. Il figlio come lo aveva messo in vettura così lo tolse, prendendolo in braccio; e ciò a Carletto non piacque perché vi era la gente; ma in mezzo al clamore allegro la sposa lo baciò sulle guancie rasate per la circostanza, ed al vecchio venne da piangere e non riusciva a trovarsi nelle tasche il fazzoletto. Lunghe tavole erano preparate dietro la casa, all’ombra. Fu messo al posto d’onore, a destra della sposa. Non era più grande di un ragazzetto: quei figli e nipoti sparsi per le mense, tutti vigorosi, massicci, non pareva vero che dovessero a lui l’esistenza. La sposa gli badava poco, voltata piuttosto verso lo sposo, bellissimo giovane: ma altre donne portavano al vecchio buone cose adatte alle sue gengive, e accanto a lui, dall’altro lato, vi era suo genero che gli versava da bere. Ben presto Carletto fu un poco brillo. Tutti guardavano lui, gli lanciavano motti, ed egli rispondeva; nel suo corpo secco un focherello di vita scoppiettava. Si alzò e fece il brindisi alla sposa. — Ora cantate una canzone! — gli gridarono. Egli tese le braccia, aperse la bocca senza labbra, e la sua voce di donnetta portò fuori una strofa:
« Bóndì me bel amour, l’é tórnà la stagión, mòstreve 'n po’ a la fnestra ».
Un lembo di vecchia canzone, un cencio, chissà di quale tempo, logoro, svanito. Il pranzo doveva durare, secondo l'uso, fino a notte. Molti lasciavano le mense, giravano qua e là, poi vi tornavano; prima di tutti i bambini, quindi le ragazze e i giovinotti. Anche Carletto, che sentiva una gran sete e non voleva più bere, si mosse a prender aria. Le ragazze gli corsero intorno a mettergli fiori all’occhiello, al cappello, a fargli dire delle antiche innamorate. Egli non si stancava di parlare: le mascelle sguernite battevano battevano. Invitato da una a ballare, fece anche questo, la prese per mano ed arrischiò due passetti di danza, canterellando, in mezzo a un cerchio d’allegria.
A tavola ogni tanto s’accorgevano che dal campanile del paese venivano le ore; ma dopo un intervallo ricomparivano gran piatti di capponi e carne arrosto, l’impresa non si avvicinava mai al termine. Qualcuno, dopo un certo tempo, domandò di Carletto. Non c’era più, non era a tavola, non sotto gli alberi là presso, non sull’aia, non in casa. Sull’aia fu infine trovato, ma dietro il pagliaio, all’ombra, messo benino a dormire sulla paglia scivolata giù. Si sparse la notizia. Tutti lo volevan vedere, i bambini, ai quali piaceva come una specie di burattino, le ragazze, ed anche la gente che ancora aveva voglia di stare a tavola, la quale a frotte compariva un momento tenendo in mano i bicchieri. — Piano, piano! Non lo svegliate! — Camminavano in punta di piedi, si studiavano di non far troppo rumore parlando e ridendo: vi riuscivano soltanto com’era possibile a quell’ora. Ma il sonno del vecchio era molto profondo; non sentiva niente, non faceva un movimento. Aveva il panciotto un poco sbottonato, la camicia cosi dura aperta sul collo, il nastrino sciolto. Pareva ancora più piccolo e secco. Cadutogli il cappello, i fiori si erano sparsi. — Aveva caldo! Il vino buono! — commentavano con piacere gli invitati, ma sempre rispettosi come davanti ad un bambino.
Anche gli sposi fecero la visita al dormente. Nel guardarlo si presero per la vita, si strinsero forte, perché dinanzi a lui sentivano meglio la giovinezza e la felicità di potersi amare. Nessun pensiero era lontano da loro come quello che anche il vecchio avesse avuta davvero la giovinezza e conosciuto l’amore. Subito tornarono via. Sull’aia si mise a sonare una fisarmonica: gli scoppi di voce, il ridere delle ragazze annunziarono che i giovani incominciavano il ballo. Carletto venne dimenticato.
Se ne ricordò, vedendo calare il sole, la madre della sposa, che aveva dovuto sorvegliar la cucina, il vino, tante altre cose, ed ancora non era venuta a vederlo. Ma le sembrò cosi immobile, quel piccolo babbo che dormiva; la boera spalancata come una caverna le fece una sinistra impressione; sul viso, sulle mani scarne coperte di vene gonfie, le mosche passeggiavano, succhiavano indisturbate. Chi gli aveva posato accanto quei fiori? La donna pensava allo strapazzo, agli sforzi che gli avevan fatti fare; pensava come avrebbe guastata la bella festa un certo avvenimento.
— Lasciamo che riposi. Andiamo, — disse a due donne venute con lei dalla cucina. Quando le ebbe allontanate, tornò indietro, si chinò ad osservare meglio il vecchio. Niente, non vedeva segno di vita; neanche il petto non si moveva a respirare. La fisarmonica, il vocio non lasciavano udire se dalla bocca uscisse il fiato. Col cuore sospeso ella tolse dal pagliaio un filo di paglia, adagio lo avvicinò ad un orecchio del padre. E finalmente vide una sua mano alzarsi. un momento, a scacciare quella mosca. Allora si senti così felice che andò in fretta a cercare la sposa e l'abbracciò davanti a tutti.
Mario Sobrero.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 21.12.32

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Citazione: Mario Sobrero, “Giorno di nozze,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 13 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/671.