Beta!
Passa al contenuto principale

Titolo: Panzini a Bellaria

Autore: Mario Pompei

Data: 1932-07-06

Identificatore: 1932_304

Testo: INCONTRI
Panzini a Bellaria
Quando capitai a Bellaria, tempo fa, con una comitiva di amici, il giorno era sul declinare e certo gli abitanti avevano ormai chiuso il bilancio delle modeste emozioni giornaliere. Ma all’irrompere delle macchine sulla breve piazzetta ricca di due caffè dirimpettai e quasi simmetrici, le finestre delle case si aprirono rumorosamente, comparvero donne e bambini sugli usci, gli uomini lasciarono la partita a bocce a metà.
Scese tra gli altri, a curiosare, non so di dove, un signore anziano, vestito alla buona, con una giacca smessa, un par di pantaloncini di tela che s'era ritirata nel lavarli, e in capo, messo di traverso, un berrettone di velluto nero « da artista ».
Se ne stava in un angolo, appartato, sbirciandoci senza parere attraverso gli occhiali a stanghetta, le mani sprofondate nelle tasche.
Qualcuno notò subito quella faccia bonaria e inconfondibile, fece mente al nome del paese, e annunciò: « ma quello è Panzini ». Detto fatto gli si formò un cerchio di gente attorno e lui in mezzo a spingere con le mani nelle tasche, senza sapere che contegno darsi.
Qualche saluto fascista ruppe il ghiaccio e l’aiutò ad atteggiarsi un poco a Eccellenza. Eccitate da quella celebrità a portata di mano le signore furono le prime ad attaccare discorso.
Capitai nel gruppo che già si parlava di eremo, di villa, di buen retiro. Ed erano state sempre le signore a entrare in argomento.
Fatto si è che Sua Eccellenza aveva invitati tutti — ed eravamo, a dir poco, una cinquantina — a visitare la sua villa. Disse « villa » ma subito corresse: «una modestissima casa ».
Montò sopra un calessino su cui attendevano un ragazzotto e una bella ragazzina bruna (i figli di Zuanì, come ci spiegò uno del luogo; nè c'è da dubitare che a Bellaria l'ultimo dei contadini non conosca tutto Panzini a menadito) e andò avanti a farci strada.
Ricomponemmo il corteo delle macchine, e appresso. Ma che cavallino focoso se a ogni svolta pensavamo ad arrivarlo e invece ci toccava mangiare la polvere!
Sua Eccellenza ci aspettava ritto sopra una proda, davanti alla casa. Una casettina rossa, in cima a una duna sabbiosa, con quattro finestre per Iato, da fare gola a Longanesi.
« Comprata con lo stipendio annuo di lire milleottocento annue », spiegò Sua Eccellenza. E calcò molto sull'annuo, alludendo a quand’era professore. Corse ad aprire una fanticella accaldata, con le gambette abbronzate, e le scarpe bianche, di pezza. Era la stessa ragazzina del calesse che in fretta e furia era scappata avanti a mettersi il grembiule. Si fece un giro per il frutteto grande un palmo, cresciuto a dispetto della sabbia che il vento porta dal mare di continuo, e il padrone ci nominava le piante ad una ad una, con orgoglio di agricoltore caparbio. Dall’umiltà con cui ci presentò una microscopica aiuola, dove a costo d'amorose cure cresce qualche fiore stentato, si capì che a un po’ di fiori ci avrebbe tenuto assai. E poichè eravamo tornati davanti alla villa, ci invitò tutti ad entrare, in uno slancio forse mal calcolato di ospitalità. Tanto che, varcando l’uscio, mi vennero in mente quelle casette dei cartoni animati che si gonfiano a mano a mano che l'abitatore ne ascende le scale. Ma dentro la fanticella aveva già allineati tutti i bicchieri disponibili e altri ne risciacquava nella attigua cucina, mentre un Panzini junior, elegante e sorridente spolverava le bottiglie commendevoli tratte allora dalla cantina. Appena finito di disporre i bicchieri l'alacre fanticella, quasi a superare se stessa, ricomparve col caffè bollente e il latte appena munto per le signore e gli astemi. E ne toccammo tutti, di quel rinfresco, benchè i bicchieri fossero scarsi e le chicchere per sei.
« E’ qui che lavora, Maestro? », si affannavano a chiedere le signore avide di impressioni, con un desiderio mal celato di visitare anche le due più intime stanze soprastanti. Si sfogarono, in compenso, a lodare la fragranza di quel latte, anche quelle che non ne avevano assaggiato. E poichè si era in discorso Sua Eccellenza si fece sull’uscio e diede voce che tirassero fuori il vitello.
Era un vitellino di pochi giorni, con gli occhi glauchi, spaurito. U sciva dalla stalla per la prima volta e in un modo così ufficiale e inaspettato.
« Morde? », domandò qualche signora azzardando con la mano guantata, mentre la mucca inquieta volgeva il grosso muso dalla greppia. E i contadini intorno a ridere di tanta meraviglia per un vitello. Intanto il sole era andato sotto, imbruniva, verso il mare qualche pigra nuvola prendeva l’ultima luce.
Sua Eccellenza ci riaccompagnò fin sulla strada, stette a vederci partire. Saluti romani da una parte e dall'altra, lui così poco accademico con quel berrettone di velluto e quei pantaloncini stenti.
Mentre ci allontanavamo si accese la luce nel tinello e il vento portò un acciottolìo di piatti, nunzio del desinare imminente.
Assidendosi al desco, davanti a un piatto di tagliatelle odorose, Sua Eccellenza si sarà anche tolta la giacca — penso —, e allacciato il tovagliolo attorno al collo. Tutte le finestre spalancate all’aria fresca della sera, nei prati un timido cantare di grilli. Beato lui! E certo, alludendo a quegli scocciatori che poc'anzi gli avevano invasa la casa, avrà detto ancora una volta, con un respiro di sollievo: « ora il padrone sono me ».
Mario Pompei.
Alfredo Panzini

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 06.07.32

Etichette: ,

Citazione: Mario Pompei, “Panzini a Bellaria,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 19 aprile 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/560.