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Titolo: Marinetti al caffè

Autore: Giuseppe Villaroel

Data: 1932-05-11

Identificatore: 1932_227

Testo: VISITE E INCONTRI
Marinetti al caffè
Marinetti a Milano, quando c’è, tiene cattedra. Attorno al suo tavolo è un febbrile movimento di giovani e di amici; ma non bisogna credere che siano, in blocco, futuristi. Le varie correnti e le varie tendenze sono quasi sempre rappresentate e Marinetti discute animosamente con tutti. Egli è leale e cavalleresco anche con gli avversari e non lascia dietro di sè rancori e acredini. Sa che io non sono ligio alla sua scuola. Non importa. Mi tende la mano affettuosamente e m’invita al suo fianco. « Poeta passatista, siedi ». Il discorso verte sulla macchina. Marinetti ha aperto le batterie: le sue parole vòlitano nell’aria, le sue mani giocherellano coi bicchieri. A poco a poco si accalda in viso, i suoi occhi sfavillano. Egli parla vertiginosamente; tuttavia, afferra in aria le apostrofi e ribatte, per inciso, continuando il filo delle sue osservazioni. Il caffè si popola di signore; vengono, con grandi scollature, dalla Scala. E’ l’ora sfolgorante. Cos’ha Marinetti? Conciona ad alta voce come se fosse il conferenziere della serata. Ma non se ne accorge, non vi bada. Tutto preso dalla discussione martella sul marmo, coi pugni, i suoi pensieri.
Gli faccio osservare che il Futurismo è un’arte esteriore: tecnicismo soltanto; manca di psicologia e di problemi spirituali. — Tutt’altro! — grida. — Noi arriviamo alle introspezioni più audaci. La simultaneità non è un problema meccanico, è un problema di movimenti psichici. E’ un errore credere che noi vediamo, per esempio, la macchina solo come strumento; la macchina è il senso e la necessità umana di oggi: domani la società sarà tutta espressa dalla meraviglia dei congegni creati dall’uomo e come tale gli artisti debbono intuirla e viverla. Tutto ciò che aderisce alla nostra vita, e diventa parte essenziale di essa, entra implicitamente nel dominio dell’arte. Anche le armi, gli aratri, gli oggetti, i veicoli primitivi furono strumenti e, ciò non pertanto, divennero materia integrante della poesia di Omero. Quando, per andare da Roma a Nuova York, noi impiegheremo appena una giornata e, nel giro di un attimo, parleremo, da un polo all’altro, coi nostri amici vedendoli come se ci stessero dinanzi e le città saranno immense officine elettromeccaniche, chi potrà più dire che la macchina non sia elemento essenziale di vita e sostanza indispensabile di arte? Noi abbiamo precorso tutto ciò; noi abbiamo dato tale mirabile balzo in avanti nei secoli.
Questo, su per giù, sostiene Marinetti ed ha ragione. — Ma la teoria non è l’arte — dico io. — E’ la strada aperta all’arte! — esplode il dinamico oratore. Egli non ripiega. Ha sempre pronto e vibrante il contrattacco. Ed ecco che risale rapidamente ai primi anni del movimento futurista. Gli episodi e le avventure più strabilianti passano dinanzi alla fantasia degli ascoltatori, Marinetti ne ricostruisce i particolari con fulminei segni. C’è la materia per un romanzo ciclico internazionale: un Jean Christophe dei nostri giorni.
— Perchè non scrivi la storia del Futurismo? — Dovrei scriverla — ribatte subito Marinetti mentre continua le sue evocazioni.
*
Appare Depero. Piccolo, tarchiato, viso scabro, naso largo, occhi sottili, porta sotto il braccio un manoscritto enorme, una specie di spartito. — Vieni a dirigere? — Appunto: sentirete che musica! — Depero apre il suo zibaldone tempestato di disegni, caratteri cuneiformi, strisce, banderuole, grattacieli, fulmini, note di voci che escono dalle finestre, sigle di rumori infernali, labirinti, ponti, ghirigori, rabeschi, gomitoli, periodi rovesciati, lettere rifuse. Alcune pagine procedono con regolare scrittura, calligrafia cubiforme; altre si costellano di ruote come il dorso di Gerione, altre ancora contengono un solo punto interrogativo, altre infine presentano misteriosi reticolati su cui corrono pentagrammi indecifrabili. Ma che cos’è, insomma? — Il mio capolavoro! — esclama il pittore. Marinetti impone il silenzio. Egli è entusiasta di questo romanzo. Ah, è un romanzo? Il romanzo dell'America vera. Effettivamente a sentir leggere Depero restiamo stupefatti. Egli riesce a darci il senso della realtà rumoreggiata di una strada di Nuova York. Il romanziere riproduce simultaneamente la vita che si svolge nell’interno di un grattacielo e la vita che turbina al di fuori. Noi vediamo, nello stesso tempo, un’umanità rifratta in mille specchi e ascoltiamo — strano ronzio di alveare — le voci, i discorsi, le scenate, i dialoghi, le confessioni, i segreti di un intiero quartiere. L’autore sa trovare i distacchi, i contrattempi, le risonanze, le pause, i ganci opportuni per estrarre, dal confuso sciabordìo umano, le note essenziali a rendere, con chiarezza ed evidenza rappresentative, il movimento delle masse e degli ambienti.
Ma questo è un capitolo. Il libro investe diverse situazioni e svariati luoghi. I personaggi entrano ed escono, come le formiche da una tana, sempre in continua corsa e in perenne groviglio. Depero legge con armonie imitative impagabili: balbettii, toni, semitoni, schiocchi, sibili, gorgoglii, rombi, gargarismi, sternuti, battimani. Tratto tratto balza in descrizioni efficacissime elaborate per trapassi antitetici. In alcuni capitoli leggiamo, a mo’ di avvertenza, la parola: disco. Cosa vuol dire? Vuol dire — spiega Depero — che a questo punto sarà legata al volume una « pagina-disco » che si potrà staccare e mettere in un fonografo. Non v’è altro mezzo per potere rendere parlate le scene più vivaci del romanzo. Questa difficoltà ha sgomentato gli editori; ma non l’autore che sta per affrontare, a proprie spese e a spese degli amici — forse —, questa originale ed ardua impresa.
Giuseppe Villaroel.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 11.05.32

Citazione: Giuseppe Villaroel, “Marinetti al caffè,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/483.