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Titolo: L'aspirina

Autore: Paolo Monelli

Data: 1932-05-04

Identificatore: 1932_215

Testo: L'aspirina
Una sera di un novembre molto lontano capitai in una piccola località dei Carpazi polacchi. Viaggiavo con persone che avevano interessi militari, politici ed economici; ed avevano dato appuntamento in quel borgo a gente influente del luogo per qiuestioni sulle quali il lettore mi permetterà di essere molto discreto. Del resto i miei compagni di viaggio non hanno alcuna importanza in questa storia. Era un anno di subbugli del dopoguerra, ed io ero tuttora in servizio militare.
Cenammo nella migliore osteria del paese; un antro basso, passato alla calce, con visibili rabberciature dei danni della guerra, e un’enorme stufa alla russa in un angolo. La nostra tavolata era rumorosa, i miei compagni e i notabili del luogo insieme mischiati; e me avevano messo a capotavola, come a straniero si conveniva. Alle altre tavole c’era poca gente; due o tre ebrei rasati e vestiti all’europea, qualche barbone fra l’impresario e il brigante, a un tavolino in fondo una biondina modesta, con pretese cittadine, insieme a un vecchio molto allegro. Alla nostra tavola la conversazione si svolgeva in polacco, lingua che parlavo male e comprendevo peggio; ma alcuni bicchierini di wódka (che in quel paese si pronuncia vùdka) tracannati d’un fiato prima e durante il pasto mi avevano fatto vivacemente comunicativo con i miei ospiti.
La sera era già molto avanzata quando si spalancò la porta, ed entrò nell’osteria con una folata di vento umido un adolescente, con i calzoni corti, gli stivaloni e uno scudiscio da cavallo. La signorina dell’angolo lo, salutò, e gli chiese qualche cosa a cui il ragazzetto rispose appena con due tak tak, si si, con voce stranamente bassa e calda. Si tolse il berrettone di pelo; ondeggiò una zazzera, una! ciocca densa gli cadde sul viso. Se ne liberò con una scossa del capo e un movimento rapido della mano nuda che mi colpi come una rivelazione. E capii sùbito, prima ancora che i miei vicini salutassero con un clamoroso invito, prosze pani, prego signorina, che l’adolescente era una donna. Venne con passi lunghi verso di noi. Fui presentato. Era la medichessa del paese; tornava da un lungo giro a cavallo per i monti. Questo mi raccontò sùbito essa stessa in un tedesco corretto, sedendo cordiale accanto a me, e fissandomi da un volto piccolo, liscio, dagli zigomi un po’ sporgenti; un volto grazioso, da mongola, raddolcito dai capelli biondo- rame appena ondulati. Ma dalla parte dove una ciocca densa, morbida, cadeva sempre, ed essa la rialzava ogni volta col gesto combinato della mano e del capo gettato indietro, l’occhio era un po’ più chiaro dell’altro, e più pigro a muoversi. Eppure la cosa non mi urtò; direi anzi che suscitò in me una rapida compassione affettuosa, sì che si aggiunse alle altre ragioni che esistevano perché la fanciulla mi piacesse subito. Stràbica, si, era (io pensai « luschetta »); ma fresca, piccola, con belle mani fine; da venti giorni non vedevo che sfatte ebree o grosse villane dalle treccine slavate sul gobbo. Si tolse la pelliccia corta; il petto sobrio sembrò respirare più libero dentro la camicetta cachi, alla militare.
Mandò subito giù due wódke, l’una dietro all’altra, sorridendo all’invito della tavolata, ex! di berle d’un colpo. Disse che aveva già mangiato; mi spiegò in tedesco, con molte parole, come e dove. La nostra conversazione divenne vivace, frettolosa, come ci fossimo scoperti antichi amici ed avessimo tante cose da dirci. Il lato della tavola a cui sedevamo era stretto, ci trovammo sùbito molto vicini, gamba a gamba, il mio Pantalone grigioverde accosto al suo, da cavaliere, di grosso panno bruno; e mi parve che questo ci accomunasse stranamente. Un calore cordiale m’accese il viso. Non era passata mezz’ora che mi pareva di conoscere la fanciulla da anni. Mi sembrò naturale ad un tratto attirarmela addosso, mettendole la mano sull’altra spalla; sentii sul viso la ciocca densa morbida dei capelli tagliati corti; eccitante novità in quei tempi. Essa fu cedevole all’impulso, si svincolò però sùbito dopo dalla stretta; e sorrise, ammiccando non so con quale dei due occhi.
*
M’ero accorto che il resto della tavolata non si occupava di noi che invitandoci ogni tanto ad una wódka; se, no discutevano fra loro, ed ogni tanto cantavano; e noi parlavamo seri; ed essa mi diceva che aveva preso la laurea un anno prima, che non era cosi giovinetta come pareva, che era povera, e come aveva accettato di venire in quella condotta perduta di montagna. Ne respiravo l’odore, cosi vicina come m’era, di pioggia, di cavallo, di sapone antisettico; ma la zazzeretta aveva un profumo caldo che mi stordiva ogni volta che l’attiravo a me; sempre docile, ma pronta a liberarsi se la stretta durava più che un attimo.
— Loro ripartono domattina, non è vero? Alle otto.
— Come lo sa?
— L’ho sentito dire. Lei è ospite di Pan Zalewski, lo so perché sta vicino a dove sto io.
— Usciamo — proposi d’un colpo, come atterrito dall'improvvisa coscienza di quella scadenza inesorabile. — Usciamo, è notte buia, stiamo un po’ soli, l’accompagno a casa, tanto questa gente è ciucca, che peccato dover partire domattina.
— Ma non è passibile — sorrideva essa. — Poi qui mi conoscono tutti, tutti stanno attenti a quello che faccio, ho una riputazione da salvare.
— Ma che peccato.
— Skoda, sì, peccato — e sorrideva con l’occhio morto. — Ma cosa ci vuol fare? — Raccolse la mia ma no, e la tenne stretta un poco. — Buono. Ora si va tutti a casa; io vengo con voi, perché sto lì vicino.
Ebbi il senso d’una disperata impotenza. La fanciulla mi parve la più desiderabile che avessi mai conosciuta; e avvicinarla, star solo con lei, farmela pietosa e docile, la più necessaria cosa del mondo. Incalzavo parlando, senza guardarmi più attorno. Non potevo venir su da lei? Bravo, e i padroni di casa, sospettosi, attenti? Non poteva riuscir lei? Sì; e se venivano a cercarla? Accumulavo argomenti e preghiere confuse; la fanciulla mi guardava con l’occhio smarrito, sorrideva, non capivo se toccata o solo stupita.
Ma ormai tutti parlavano di andare a casa. S’alzarono, si bevve l’ultimo, un ignoto servizievole accorse col mio cappotto, la fanciulla nascose la zazzera sotto il berrettone, s’abbottonò fino al collo la pelliccetta, fummo fuori come aizzati, nella notte nera, sulla strada fangosa, in marcia in un gruppo confuso dietro lampi di lanterne.
Capitai fra due notabili che m’interrogavano premurosamente su cose assurde; io cercavo Mariczka, inghiottita dal buio, dalla turba; e non m’importava più nulla di nulla, né l’alito piovoso dagli invisibili monti intorno portava refrigerio al calore che m’avvampava. Me la ritrovai accanto quando già disperavo di ritrovarla. L’afferrai per il braccio, la trattenni un poco, cercai di stringermela addosso cercandone la vita sottile sotto le falde della pelliccetta. Ma essa era ora restia, non c’era più traccia della dolcezza morbida con cui si chinava verso di me nell’osteria come se solo la luce e la gente le impedissero di lasciarsi baciare. La sua voce restava affettuosa, più sommessa anzi, e quasi di complice; ma ogni suo gesto era vigile e pronto; e quando credetti di averla piegata mi sentii sul viso il pelo duro e bagnato del berrettone.
Eravamo da poco usciti dal folto delle case e salivamo a svolte quando essa s’arrestò, ed indicandomi fra ombre di prato e d’alberi una massa oscura, un edificio a due piani, con una finestrella illuminata in cima, disse: — Li sto io. Anche Lei è ormai arrivato. Addio. — Poi soggiunse, e vidi lampeggiare i denti nel buio: — Se stanotte ha mal di testa, venga a farsi dare un’aspirina da me. — E si svincolò d’un salto, fu come per incanto, lontana fra il gruppo con cui scambiava saluti; e scomparve.
*
Due ore dopo, inutile che vi racconti con che scuse e con che arti, uscivo di soppiatto dalla casa del mio ospite; scendevo quei cinquanta metri di strada, varcavo una cosa come un cancello di legno, traversavo un prato, e m’aggiravo attorno alla casa della fanciulla, sotto la finestrella illuminata, attendendo ch’essa rispondesse ai richiami che lanciavo con sommessa audacia: — Mariczka! Fräulein! Signorina!
Cercai dei sassolini da fare arrivare ai vetri della finestra illuminata, accennai fischiettando il motivo d’ariette alla moda, preso fra l’ansia di farmi sentire e il terrore di destare i sospettosi padroni di casa. Nulla. La finestrella illuminata chissà cos’era; nessuno si affacciava. Mi sentii d’un tratto goffo ed illuso. Quelle parole della fanciulla, ripensate ora, mi parvero nulla più che una canzonatura. Tornai a casa.
Mi svegliai prestissimo, la mattina dopo. Ero già vestito, e nessuno dei miei ospiti m’aveva ancora cercato. Schizzai fuori di casa con una decisione improvvisa, corsi alla casa della fanciulla. La porta era aperta, una vecchia scopava sulla soglia. Mi guardò senza curiosità.
— Pani doktora, prosze — cianciugliai. — La signorina dottoressa, prego.
La donna rientrò in casa, gridò dentro la tromba delle scale. Scese dall’alto la cara voce, calda, bitte, che potevo salire. La vecchia si fece da parte indifferente, salii i gradini a tre a tre. All’ultimo piano, sul pianerottolo addobbato come un'anticamera, due seggiole e un sofà, essa m’attendeva con un sorriso imbarazzato; in una vestaglia che si teneva stretta addosso con la mano, piccola, carina, la gran ciocca densa sull’occhio morto. Intravidi dietro due stanzette, una col letto disfatto, l’altra con le pareti bianche di calce e mobiletti di ferro; risentii l’odore di disinfettante, di vesti povere, di faticosa pulizia.
Feci per attirarla, ma essa sgusciò via. — Cosi — disse — ha voluto venirmi a salutare prima di partire? Molto buono. Posso darle un tè, ma in fretta. Se no cosa dirà la padrona? — E senza attendere risposta si sporse dalla ringhiera, gridò giù qualcosa. Poi tornò verso di me, mi prese per mano, si sedette e mi fece sedere accanto a lei sul sofà duro dei pianerottolo. E sorrise di nuovo, come imbarazzata. « Dunque stanotte non ha avuto mal di testa? ».
— Ma io sono venuto, Mariczka, — proruppi, affannato, come disperato di un dono che giunge troppo tardi, — sono venuto, sono stato mezz’ora qui sotto, ho "chiamato, ho gettato dei sassi...
— Ero così stanca, dormivo, si vede. Ma perché non ha suonato? Di notte, quando si suona, i padroni di casa sanno che è per me e non si muovono. Scendo io ad aprire. Doveva suonare.
La fanciulla uscì in una risata sommessa, quasi gorgogliata, ma interminabile, guardandomi con l'occhio sano, l’altro celato dalla ciocca densa; ma quando s’accorse che io avevo tutta l’aria di gettarmi su di lei, non so con che faccia, non so con che aria, scattò in piedi; e cessò di ridere, e stese le mani come per tenermi lontano, ed una stanchezza rassegnata le distese il viso. « Ecco il tè » disse. La vecchia era salita senza rumore. M’offerse il bicchiere caldissimo, lo zucchero, restando in piedi; mi sollecitò a berlo in fretta, che era tardi, che dovevo andarmene, che non potevo restare lì di più senza comprometterla. «Vada, vada. E’ tardi ». « Troppo tardi » feci io. « Sì, tardi; troppo tardi. Ma ora se ne vada ».
Mi stese le mani, sfuggì all’ultimo tentativo d’abbraccio, mi spinse quasi giù per le scale. Rivolgendomi indietro dopo pochi gradini la vidi come abbandonata, nella veste povera, sulla soglia delle camerette intraviste, squallide, mezzo giaciglio e mezzo ambulatorio per malati miserabili. Scosse la zazzera dalla fronte, la mano levata a rialzare la ciocca sventolò un saluto, ebbe un sorriso tirato. L’occhio strabico mi lampeggiò una fissità desolata.
*
Mezz’ora dopo, in auto sulla piazza del paese, stretto fra due compagni di viaggio, il meccanico già innestando la marcia, udii qualcuno chiamare. — Aspetta, aspetta. — Un ragazzetto arrivò di corsa presso alla macchina, allungò un pacchetto, disse qualche cosa che i miei compagni tradussero. — La signorina dottoressa le manda questo.
Nel pacchetto c’era una di quelle buste azzurre d’aspirina; e dentro la busta due pastiglie.
Paolo Monelli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 04.05.32

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Citazione: Paolo Monelli, “L'aspirina,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/471.