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Titolo: A occhi chiusi

Autore: Francesco Lanza

Data: 1932-04-27

Identificatore: 1932_202

Testo: A occhi chiusi
Il mio paese, da quando ci manco, non è per nulla mutato. Soltanto, parecchi sono morti. Al circolo, gli ultimi vecchi, diventati anch’essi del colore del tabacco da naso, siedono solitari sulle poltrone e fisano con lo sguardo assente la lontana danza delle ore. Le mosche volano su di essi a sciami e li divorano lentamente. Uno trova la forza d’alzarsi e, allontanandosi, dice con la voce diafana: « Le mosche sentono l'odore del cadavere ».
* * *
C’è un’aria sciupata, di tavole sparacchiate, di cortine cascanti, di divani sforacchiati dai topi e con le molle rotte, nei gabinetti riservati al Pavillon-meraviglia di seconda mano di Jassi. I camerieri, col tovagliolo in tasca, s’aggirano come fantasmi, aprono le porte e scompaiono. Non tornano neppure a cannonate; bisogna lasciarli fare. Nel giardinetto, in una luce semiclandestina da luogo di borseggio, una tetra orchestrina di tzigani (che fa pensare, non so perché, a oggetti spaiati, come il vasellame d’una famiglia decaduta) attacca di tanto in tanto una delle solite rapsodie della steppa, smozzicata e gocciolante come le candele di riserva che sono sulle mensole. Il cameriere che ci ha presi in consegna torna e apparecchia la tavola. « Vogliono le signorine per il ballo? » ci domanda, come se dicesse invece: « I signori vogliono delle ostriche? ». Ne ordiniamo tre, una a testa; e poco dopo esse entrano, si tolgono i cappelli, si aggiustano allo specchio, dalle chiome alle giarrettiere, e si mettono a sedere con la libertà degli accidenti abituali. In fondo, il loro ufficio è quello di sfamarsi alla tavola degli avventori. Una, in gonnellino verde, ha le gambe da cavallerizza, così arcuate che sembra debbano da un momento all’altro slogarsi e saltare in faccia come quelle delle locuste. La sua bocca è piena di denti d’oro come la cassaforte d’un dentista. L’altra è enormemente lunga, gambe, braccia, faccia; si pensa a un cavallo bianco da cartolina illustrata, a una formosità equina, innaturale, a Berta dal gran piè. Quella che s’è seduta al mio fianco, m’accorgo ch’è quasi una bambina. Nel frusto aspetto dell’abito e del mestiere ha qualcosa di delicato, una lontana e misera innocenza di cosa nuova buttata fra i rifiuti. Nella luminosità sbiadita degli occhi, come un’acqua, sorride profonda una casta indifferenza. A una parola o a uno sguardo che fraintende, posa interdetta la forchetta e il coltello, come se le dicessero di smettere e che è ora d’andar via. Rassicurata, riprende a mangiare con la suprema esclusività delle bestie e dei bambini.
Alla fine, si appoggia alla mia spalla con un moto puerile di gratitudine, ma come distaccata da se stessa, canticchiando con un gorgoglio strozzato. Lentamente, la stanchezza la vince: mette le braccia, magre, conserte sulla tavola, vi reclina il capo, e s’addormenta.
Resta così, col capo e la spalla ignuda, bianca anch’essa come un cristallo, tra lo splendore malinconico dei bicchieri e delle bottiglie vuote e quello roseo delle bucce di mele.
***
Al cader della sera del venerdì, caschi il mondo, gli ebrei asserragliano le botteghe e si precipitano nella Hara. Nei vicoli ciechi come tombini di spurgo, si sente l’odore della cipolla, dei fegatini e dei pesciolini fritti e delle erbe aromatiche che fanno riconoscere in ogni parte del mondo la cucina ebraica. Le donne in fazzoletto e zendado bianco, con lo stomaco a mandola che arriva al petto, si mettono sull’uscio, decise a non grattarsi neppure la testa fino all’indomani alla stessa ora. Gli uomini in palandrana e camiciola svolazzante sugli stinchi si precipitano, come chiamati dalla tromba dell’Angelo, nelle sinagoghe e salmodiano le preghiere. Al primo piano d’una casetta rimessa a nuovo scoppiano voci, come il principio d’un pacifico tumulto. — Entra, entra — mi fa, sul portoncino, uno dei fedeli dai capelli e le spalle impolverati di forfora come se gli fossero caduti sulle spalle tutti i calcinacci delle mura di Gerusalemme, e poiché non ho berretto mi offre il suo tubino che mi sta appena sul cocuzzolo. Salgo una scaletta dritta, e mi trovo in una specie di sinagoga di famiglia. Sul podio, dinanzi al tabernacolo aperto, dove tra fiorellini finti e cianfrusaglie infantili ingialliscono i cartigli del Decalogo, l’officiante di turno legge il Talmud. Sulla camiciola ha un impermeabile nuovo fiammante con le pieghe ancora della fabbrica, un cappelluccio lercio in testa e sulle spalle una specie di mantellina bianca, legata con uno spago al collo, che gli dà l’aria d’uno strano uccello, anche per il continuo verso che egli fa. Intorno, sulle panche, sulle stuoie o all’impiedi col libro o senza, gli altri rispondono, distratti e con indifferenza, come se non fosse il fatto loro. Alcuni mangiano bruscolini e, inghiottito il boccone, dicono con la voce gonfia: amen! o alleluia! Altri, nel bel mezzo, si mettono a chiacchierare, portano forse a fine un affare. La preghiera, così rigorosa e formalistica, non ha alcun impegno, l’attesa messianica avviene, senza contarci troppo, in un’aria da sala d’aspetto e di serata in famiglia.
Solo i più vecchi curvano ancora le spalle sotto il peso della tradizione. Dopo la preghiera, col libro sempre in mano, se ne vanno sui bastioni, guardano il mare e sospirano. Ogni venerdì alla stessa ora, attendono cosi, dal mare, l’arrivo del Messia; e nell’attesa, che dura ininterrotta dai tempi dell’Esodo, piangono lagrime commoventi di speranza e di sfiducia.
* * *
Alle sette del mattino, dai punti cardinali delle stazioni, i grandi espressi scaricano a Vienna la folla dei viaggiatori internazionali. Un funzionario, lungo e biondo come un levriere, indica fra il groviglio dei binari l’uscita, tendendo nello stesso tempo la mano in un appello dignitoso e clandestino alla mancia, i facchini afferrano di volo i bagagli e spariscono inghiottiti da misteriosi ascensori che si sprofondano sottoterra. Spaventati dal loro modo di fare, il primo pensiero è di gridare al ladro e di correre al posto di polizia; ma i bagagli e i facchini si ritrovano poco dopo onestamente allineati dinanzi al bagagliaio e allo splendore commerciale dei cartelloni giganti.
La città è quasi deserta, le bocche delle porte e delle finestre si socchiudono in lenti sbadigli. Nei giardinetti pubblici, lisci e pettinati come bambinaie, delle vecchiette in paltoncino e il boa spelacchiato come una cagnetta aspettano pazientemente di affittare per un groschen le sedie agli amanti del fresco, del sole e del verde a buon mercato, e intanto dànno da mangiare ai passerotti che vengono a posarsi cinguettando sulle spalliere.
Un cocchiere dai baffoni come due spazzole, incollati su tutta la lunghezza delle guancie fino agli orecchi, vi prende di peso in carrozza e vi porta a fare una mattutina, solitaria, ricognizione della città, sotto lo sguardo cavalleresco dei metropolitani. Che si potrebbe fare, in attesa della colazione e dell’altro treno? Imponente, col manico della frusta e una sommaria esplicazione da didascalia, egli vi indica di tanto in tanto Maria Teresa, i tetti verdi, ingrommati di muffa sul nero dei prospetti, del Parlamento e del Palazzo Reale, l’Opera, i pezzi estetici e famosi. Al vostro passaggio, le finestre si aprono a una a una, le cameriere rubiconde e paffute come salsicciotti mettono fuori i tappeti e si sbracciano a batterli sonoramente: marcia di tamburo della Vienna domestica che si sveglia e fa ramazza prima di esalare dai camini il fumo e l’odore drogato delle zuppe. Verso le dieci, tutti i cani, dai danesi corpacciuti e solenni come generali ai pechinesi dal volto ricciuto e soffice di ranuncolo, fanno teletta, si mettono il collarino e il guinzaglio, si affacciano un momento a guardare il tempo, ed escono a passeggio tirandosi dietro le padrone attempate. E’ questa l’ora dei cani: essi s’incontrano, s’annusano, fanno crocchio e vanno a prendere il caffelatte e i biscottini salati al caffè.
Di colpo, poi, le strade si riempiono di folla, di cappelli alla tirolese con la penna di fagiano, di baffoni e grossi crani, di borzacchini da montagna e di panciotti verdi come le lucertole. Senza sconfinare dalle guide di biacca tracciate sull’asfalto, passano da un marciapiede all’altro le belle ragazze slanciate, bronzo-rame, come quelle che dietro le vetrine, su cartoncini spugnosi, fanno la reclame alle lastre e ai virofissaggi di marca.
***
Crimea 1918 — Le ragazze dai quindici ai vent'anni sono chiuse in una sala della vecchia direzione di polizia, trasformata in quartier generale. A gruppi per terra, esse si serrano l’una all’altra con una stanchezza incorporea, alcune gemono con l’insistenza inutile e cieca dei cuccioli strappati dal petto materno e buttati in un fosso. A un rumore dietro la porta si fa quel silenzio livido e allucinato che precede i grandi eccidi da mattatoio, pronto a scoppiare in un urlo sguaiato, come una vescica alla puntura d’uno spillo. — Ci uccideranno? — si sente susurrare una, con un fil di voce che serve a strappare l’incubo. — Perché dovrebbero ucciderci? — risponde a un tratto un’altra, dal fondo della sala. — Ce la caveremo a buon mercato —; e, come sciolta a quelle parole dall’angoscia circostante, con la lucidità fatua e visiva del delirio, quasi ilare, essa dice cose terribili e veridiche. Le altre, ossessionate, stringono i pugni sulla bocca per non urlare. Nell’altra stanza, le guardie rosse entrano alla spicciolata, con l’aria di chi è impacciato ed eccitato in modo ridicolo dall’enormità del proposito.
— Avanti, pecoroni — grida una comsomolca, che tiene spianato il fucile. — Andate a provare se queste agnelline sono diverse da noi, prima che il loro ricordo scompaia dalla nuova società.
S’odono, poco dopo, strilli acuti e sconnessi, come di galline cui si strappino le penne.
Fuori, si ha l’impressione ràbida e congestionata del sangue.
Francesco Lanza.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 27.04.32

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Citazione: Francesco Lanza, “A occhi chiusi,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/458.