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Titolo: Una nave in terraferma

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1932-04-06

Identificatore: 1932_179

Testo: Una nave in terraferma
Gli anni della mia infanzia malata trascorsero in una casa che dava sulla marina e da dove si udiva, durante il giorno, il frastuòno dei battimazza e dei calafati che lavoravano nel vicino bacino di carenaggio. Lo spettacolo che vi si godeva mi è tuttora presente: una fantasmagoria di colori violenti, di cieli infuocati, di vele accese, di ciminiere, di chiglie, di pavesi, di cordami: tutto alzato con tanta solennità dietro le rosse muraglie dei bastioni medicei da farmi apparire la distesa delle acque, al di là dei frangiflutti, superflua quasi come un fondale scenico dipinto. E piccoli mi sembravano gli uomini che passavano sotto le mie finestre, i marinai stranieri, i lavoratori sporchi e bruciati dal sole e gli emigranti che vanno curvi sotto il loro fardello con l’ascia e la sega a disboscare in Corsica.
La voce di mio padre che paventava per la mia salute, tanto che non riusciva nemmeno a dissimulare, accresceva in me quel penoso senso di angustia della vita circostante. Cominciavo evidentemente a sognare, anzi ad acquistare coscienza dei miei sogni e lui, cui nulla sfuggiva, considerava quel mio fantasticare e la tetraggine che ne seguiva come il sintomo più preoccupante del mio male.
— E soprattutto — ammonì la governante un giorno che fingevo di sonnecchiare — non voglio che si soffermi alla finestra di cucina. Capito?
Le altre stanze che davano sul dietro della casa mi erano precluse. La finestra di cucina la trovavo sempre chiusa e già qualche volta avevo provato una prepotente curiosità di sapere che cosa si poteva scorgere nella strada sottostante da dove venivano rumori indistinti, canti, bestemmie e voci che non mi parevano comuni.
Durante molto tempo fantasticai inutilmente sulla natura di quel mistero e sulle ragioni del divieto finché un giorno, in assenza del babbo, riuscii ad avvicinarmi solo al luogo proibito, ma dovetti pazientemente scrostare con le unghie la vernice che ricopriva i vetri prima di potere soddisfare la mia avida curiosità.
Un mondo impensato mi si rivelava: la strada era stretta e buia, il selciato sconnesso, tanto che i passanti, visti dall’alto, pareva che barcollassero. Si trattava di una strana folla di uomini di mare — certo quelli stessi che vedevo qualche volta passare davanti alla marina — ma in una strana promiscuità che non mi permetteva di scorgere a quale na zionalità appartenessero, nè quale fosse il loro grado.
Entravano a frotte in una casa dirimpetto alla mia e scomparivano dentro una specie di antro luminoso che sventagliava sul selciato un triangolo di luce violenta.
La casa molto alta aveva quattro finestre per piano dalle persiane verdi chiuse ermeticamente che, ad osservarle bene, sembravano dipinte. La facciata aveva così un tale aspetto di rigidità senza vita da farla sembrare piuttosto una paratìa alzata davanti a un mondo che a me non poteva essere rivelato: solo gli uomini di mare potevano avervi accesso.
Doveva esservi, di là, un mare nuovo, seducente, tanto diverso da quello che vedevo dalla parte opposta della casa e che, durante i meriggi infuocati, mi abbagliava accecandomi quasi: un mare senza increspature, di piombo fuso doveva sembrare, che non faceva rumore battendo pigramente sulla fragile barriera costituita dal muro della casa. Una nave misteriosa doveva avere attraccato e teso gli ormeggi in direzione dell’antro luminoso. Era certo un vascello senza bandiere, inchiodato alla riva, con un aspetto forse sinistro come hanno le navi che offrono in bacino alla vista di tutti le fiancate liberate dal minio. Malgrado ciò doveva avere delle seduzioni per i marinai che correvano a imbarcarvisi a frotte.
Disertavano evidentemente le altre navi sulle quali avevano traversato più volte l’oceano per cercare un nuovo imbarco dove la vita fosse meno dura, la navigazione sempre placida, i venti non procellosi, le ore meno monotone.
Quelli che si erano stancati di attendere la partenza riapparivano ih strada stanchi e sfiduciati. Ma la ciurma si sarebbe composta Io, stesso e un capitano di vaglia l’avrebbe comandata. Non vi sarebbero stati più ammutinamenti e diserzioni, né vigliaccheria, né pigrizia da parte di ogni uomo.
Dalla strada venivano intanto voci più concitate: una rissa. Dovetti allora spezzar l’unghia per scrostare ancora un poco il vetro e vedere. Menavano le mani. Scorgevo strani grovigli di ombre e ogni tanto più distinte le divìse bianche e turchine coi gradi d’oro e le nappe dei berretti, rosse come macchie di sangue. Poi qualcosa di lucido: forse una lama.
Non era dunque sempre pacifico l’imbarco su quella nave. Rapidamente tutto si placò e gli ultimi gridi, mi parve femminili, si persero nella greve atmosfera della strada semibuia.
Ricominciarono poco dopo a passare i marinai, qualcuno cantando.
Poi una finestra davanti alla mia si apri e vi apparve come per incanto una donna: aveva i capelli d’oro e in volto una tristezza dolce, certi occhi mesti ed accesi, forse stanchi di star seppelliti nelle cerchiaie nere delle palpebre. Mi guardarono. Sembrava avesse aperto per me, solo per me, per vedermi e porgermi un saluto.
Risposi agitando le mani e sorridendo. Dovevo esser ben visibile dietro il vetro dal momento ch’ella continuò ad ammiccarmi e mi lanciò un bacio con le mani.
Pensavo: — Da lei finalmente potrò sapere qualcosa sulla natura di quel mistero, quali marinai godono il privilegio d’imbarcarsi sulla nave, quando questa salperà e il perché della rissa furibonda cosi presto sopita.
Scomparve: mi sentii allora atterrito nel rivedere la persiana chiusa. Mi parve di aver sognato e che la donna non fosse mai esistita: figure simili si trovano solo nelle fiabe e nei quadri delle chiese.
Durante vari giorni continuai a sognare la donna e la nave misteriosa finché, in un mattino d’estate, mi fu possibile uscire di casa e trovarmi per la prima volta solo per strada.
Avevo tanto fantasticato che il mondo reale, pieno di gente viva che passava senza curarsi di me, non mi fece paura.
Mi sentivo quasi abbracciato dal sole rovente, inebriato dalla salsedine marina, dai rumori che ora udivo più distintamente e dal rigoglio di vita del porto vicino, gli urli dei carrettieri, i colpi di mazza, i fischi dei vapori che doppiavano il molo.
Ma la gioia repentina che mi prese fu subito venata da un pensiero torbido: un desiderio acuto di avventurarmi nella strada proibita, di muovere i miei passi incerti sul selciato sconnesso, di porre gli occhi dentro l’antro luminoso.
Che avrei fatto se, giunto fin là, fosse scoppiata una rissa furibonda come quella sera? La mia febbre nuova di sapere non mi consentiva di riflettere molto o forse, a distanza di anni, penso che fosse un inconscio torbido bisogno di rifarmi dell’orgia di luci che impazzavano lì davanti, quasi si trattasse di nausea per quella vita elementare ed aperta, come certamente deve avvenire agli uomini di bordo dopo le lunghe navigazioni.
Ma allora non potevo riflettere a quelle cose. Andavo a passi svelti verso le prime case dove cominciava la strada famosa che si svolgeva per varie diecine di metri tortuosamente fino al luogo a me noto. Andavo con una speranza nel cuore: incontrarmi con la donna misteriosa che mi aveva sorriso dalla finestra.
Me la vidi comparire davanti molto diversa dalla prima volta: il volto ancor giovane irrideva quasi le macerie di un corpo disfatto, tutto angolosità e mi suscitava la strana immagine di un fiore devastato da: qualche mano vandalica. Ma l’espressione era ancor quella, per quanto un vistoso cappello di paglia l’adombrasse: triste e soave insieme, materna insomma.
Mi riconobbe, mi sorrise di nuovo. Non era poca ragione di orgoglio il sapermi prescelto fra la folla che passando si volgeva ad osservarla e le lanciava avidi sguardi e parole che io non potevo comprendere.
La mano gelida di lei si posò sulla mia testa. — Sei il ragazzo che abita davanti a noi? — disse, e continuando ad accarezzarmi aggiunse: — Caro... caro...
Ed io, allora, incoraggiato:
— Quando parte la nave dietro la tua casa? Sì, la nave, dico. Non fingere di non capire. Che verrebbero a fare i marinai se non vi fosse una nave?
Continuava a carezzarmi e rideva, ma c’era, nella sua ilarità, qualcosa di falso e di inquietante. Sembrava anzi che un grande peso le opprimesse il petto.
Proseguimmo per un po’ lungo la strada assolata: io e la donna della casa misteriosa che mi teneva per mano, senza che ardissi domandare ancora. La gente si soffermava e rideva, inspiegabilmente.
Poco ricordo di quel che avvenne dopo: di peso in casa mi condusse mio padre. Giunti nella mia cameretta, mi depose sul letto e sollevò le mani in un modo tanto strano, come se avesse toccato una cosa infetta. Nel suo cieco istinto mi credeva contaminato, perduto.
— Perché non ti sei curata di lui? — urlava alla governante. — Perché l’hai lasciato uscire di casa? Gli tornerà la febbre. Bisogna sorvegliarlo e non lasciarlo nemmeno un minuto. E’ malato, tanto malato...
Era la sua fissazione: ritenermi vicino a morire ogni qualvolta cominciavo a vivere.
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 06.04.32

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Citazione: Riccardo Marchi, “Una nave in terraferma,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/435.