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Titolo: Uffici

Autore: Ugo Betti

Data: 1932-02-17

Identificatore: 1932_114

Testo: Uffici
Di Pomo ne avevamo parlato molto anche in principio, quando arrivò alla sezione Economato, dove fu messo solo, in una stanza dell’archivio un po’ umida, circondata di armadi. Ci sembrò interessante, noi dicevamo antipatico; cominciammo a chiamarlo appunto Pomo perché camminava impettito. I capelli già radi, il volto bianco e un po’ grasso, le mani ben tenute, ma pelose, facevano pensare a un figlio unico allevato da genitori vecchi e maniaci. I suoi due bambini gli somigliavano in modo impressionante, anormale. Invece, quando l’avemmo conosciuto, cessammo tutti dall’occuparci di lui.
Quando l’altro, cioè Zàngaro, giunse dalla provincia, e fu messo nella stessa stanza, nello scrittoio di fronte, avvennero, fra i due, da principio, urti abbastanza seri. L’usciere, entrando, trovava Zàngaro intento a smuovere incartamenti e scansie fra nuvoli di polvere; e Pomo costernato a fulminarlo con gli occhi. Notò però che la stanza acquistava man mano un odore suo, come tutte le altre stanze, che hanno ciascuna un odore, quello dell’impiegato che le occupa. Prima di Zàngaro la stanza aveva il sentore insipido e polveroso dei locali disabitati; probabilmente perché Pomo non fumava. Certo, gli occhi a succhiello del nuovo venuto, quelle tempie un po’ umide, quel mordicchiarsi le unghie, dovevano fargli stizza, a Pomo, dovevano tenerlo agitato. Poi avvenne qualche cosa.
Una mattina Zàngaro alzò un dito, indicando due macchie d’umidità sul muro; disse che una pareva l’Inghilterra; e l’altra un cavolo. Pomo guardò. Perbacco! Ma era proprio vero! Forse pensò per un momento, molto stupito, che in tanti mesi lui non aveva veduto. L’altro aveva parlato, quelle cose avevano cominciato ad esistere.
Disse, commosso: — E’ vero.
Incontrò gli occhi dell’altro, che lo guardavano con una certa simpatia; e d’un tratto pensò che non aveva mai avuto amici, nemmeno da studente; che doveva essere bello avere una persona alla quale dir tutto; per essere compresi.
Questo episodio ci fu raccontato dopo. Noi dapprima vedemmo solo che i due, improvvisamente, fecero amicizia, divennero inseparabili. Noialtri quasi li perdemmo di vista. Dopo due anni, un giorno, essendo capitati in ufficio i due bambini di Pomo, la stanza degli armadi si affollò di colleghi. I due bambini, vestiti da ometti, alti meno d’un tavolo, si tenevano per mano con aria stupefatta e rispondevano in coro, fra le nostre risate, alle solite domande senza senso che si fanno ai bambini. A un dato momento un applicato dai capelli rossi, indicò prima Zàngaro, poi Pomo, chiedendo a chi dei due volevano più bene. I due bambini alzarono insieme il braccino, e dissero: — A lui. — Avevano indicato Zàngaro. Volevano dire che Zingaro era più divertente, sapeva forse più giochi. Ma la risata del padre risuonò sola. Il silenzio, probabilmente fortuito, fece nascere un leggero disagio; tutti istintivamente, quando Pomo si volse, abbassarono gli occhi. Lui parve riflettere un attimo, alzò macchinalmente lo sguardo all'applicato, che fece un gesto incerto, poi a Zàngaro, che aveva voltato le spalle. Per due o tre volte il sorriso, sul volto di Pomo, si cancellò, poi tornò, man mano meno allegro; un po’ umile; quasi doloroso, da ultimo. Si guardò le mani imbarazzato, poi si cercò in tasca, come se davvero si fosse accorto che gli mancava qualche cosa. Tutti i colleghi intanto erano usciti; i due marinaretti, nel mezzo della stanza, guardavano, con le loro faccine stupite.
Fu Zàngaro, quella sera, che evitò di prendere sotto braccio l’amico, come trattenuto da una timidezza. Allora assistemmo, ma senza volerlo, ad una scenetta impreveduta. Sballottato dalla folla degli impiegati che uscivano, Pomo s’avviava anche lui, ma lentamente, girando intorno sguardi supplichevoli. Ritrovandosi solo sul piazzale, senza Zàngaro accanto, la sua prima sensazione dovette essere quella di non sapere che cosa fare, di non sapere nemmeno che strada prendere. Lo vedemmo esitare, incamminarsi, tornare indietro: s’era persino dimenticato di comperare il giornale. Ma non lo apri, si mosse pensieroso, con l’aria di uno che tenta di raccapezzarsi. D’un tratto affrettò il passo, con una risolutezza forzata, come per cercare di vincersi. Cosi sparì allo svolto. Da quel giorno parve che un muro si fosse alzato fra i due amici.
*
Fu allora che la cosa incominciò a divertirci. Ci stuzzicò soprattutto il contegno di Pomo, che prese a mostrarsi preoccupato, irrequieto.
Di Zàngaro il pover’uomo non parlava; ma succedeva questo: che molti dei suoi modi di dire, dei suoi gesti, erano proprio quelli di Zàngaro, che Pomo, senza accorgersene, aveva fatto suoi. Se ne avvedeva ora, di volta in volta, avvertito da un battito dei nostri sguardi. Si interrompeva, allora, oppure alzava la voce, con rabbia insieme e angoscia. Fu l’economo che una sera cominciò a parlargliene, di Zàngaro.
Il giorno dopo l’economo, col pretesto di riesaminare una pratica, cominciò a sfogliare con lui il fascicolo minute della sezione. Si vedeva, di foglio in foglio, la scrittura di Pomo, Rottile, dilìgente, benché non senza svolazzi, a poco a poco mutarsi, farsi un po’ gonfia, quasi accavallata.
— Hai perso il tuo bel caratterino. Peccato.
— Si, sono un po’ mutato — disse Pomo, dopo un silenzio. Ora non era più rosso, era pallido e non cercava nemmeno più di nascondere la faccia curvandola sul fascicolo. Effettivamente fra la scrittura più recente di Pomo e quella d'altri fogli, che erano minute di Zàngaro, una certa somiglianza c’era. Ma era cosa appena avvertibile e del resto spiegabilissima, totalmente sprovvista di quel significato quasi superstizioso che pareva attribuirle Pomo.
— Magnifico! — dicevano nella sezione, bisbigliandone in crocchio, eccitati. Subire un’influenza può capitare a tutti; si sa quel che vuol dire parlare scrivere respirare insieme otto ore al giorno per anni. Ma perderci il sonno, farsene una manìa, era proprio da stupido. Il poveruomo ogni tanto, passando col cuore sospeso, coglieva o credeva di cogliere mezze allusioni, che poi l'ossessionavano per giorni interi, specialmente la sera quando il respiro di Zàngaro, a due passi, di fronte, gli dava proprio un’ambascia. Allora su ciascuna delle due scrivanie, scure, uguali, s’accendeva una lampada verde, con sotto, nel disco della luce, di qua e di là, mani irrequiete. Più in alto, pallide e verdognole sopra gli sfondi cupi, le due faccie, sfiorate dagli stessi riflessi, parevano davvero somiglianti. Gli occhi, di qua e di là, vagavano, temendo d'incontrarsi. Sembrava il gioco di uno specchio.
Un giorno scoppiarono nella stanza degli armadi torti di voce eccitati, un alterco. Pareva si trattasse d'una matita non più trovata sul tavolo, non si capiva bene. Zàngaro non ribatteva Si sentiva Pomo, invece, balbettare addirittura, accusare l’altro con voce stridula, isterica, d'averlo sempre trattato come un povero essere, un cencio, un sacco vuoto. Dopo questa frase, un silenzio. Poi dei passi, ma quasi lenti, poi ancora silenzio. Presi da un malessere, entrammo. Vedemmo prima il volto di Pomo: bianco, con qualche cosa di stupefatto, di infantile; poi Zàngaro, appoggiato a una scansia, quasi piegato in due. Si teneva la testa fra le due mani già insanguinate fino al polso.
Era una ferita da nulla, per fortuna. Pomo fu traslocato. Questi corridoi bui, le due lampade verdi, le nostre faccie che spuntano da tutti gli usci con un sorrisetto, gli sembreranno, ora, l’immaginazione di un’insonnia. Hanno messo al suo posto un impiegato nuovo, che pure è un tipo molto divertente, timidissimo, con un difetto di pronuncia.
Ugo Betti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 17.02.32

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Citazione: Ugo Betti, “Uffici,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 15 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/370.