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Titolo: Marfisa

Autore: Francesco Lanza

Data: 1932-01-13

Identificatore: 1932_97

Testo: Marfìsa
Marfisa era fiera come un’orsacchiotta. Il re Solipardo, che essa credeva suo padre, l’aveva circondata di nobili donzelle che le facessero compagnia e l’assecondassero in ogni suo capriccio, e di matrone e maestri che le insegnassero i lavori d’ago, il ballo, la musica e ogni altra virtù che a fanciulla d’alto lignaggio s’addice; ma essa spregiando i lavori e pensieri donneschi lasciava le compagne, sfuggiva alle cure noiose di matrone e maestri e, vestita d’elmo, di corazza e schinieri, si addestrava alle armi, giostrando coi migliori cavalieri della corte, o cavalcava i più indomiti destrieri finché non le riusciva piegarli al morso; invece di campi di piume sognava sfide, zuffe e battaglie e, invece di baci e sorrisi, ferimenti, morti e stragi. I discorsi delle sue pari la tediavano, e sentiva con meraviglia e interno furore che si potesse pensare all’uomo come a marito e naturale signore del proprio corpo, quale ogni femminuccia tremando di desiderio lo vede. La natura maschia e feroce la portava piuttosto a pensarlo come nemico da vincere in campo, con l’armi al pugno, e stendere a terra per calcargli il piede sul petto.
Intanto, così educandosi, essa era giunta a quell’età che tarda a ogni fanciulla d’essere avvinta dai dolci nodi d’Imene; e già le vaghe forme del corpo, cui l’uso dell’armi non toglieva ma dava maggior grazia, e l’oro de! crine e le fresche rose del volto accendevano negli occhi dei cavalieri, e le pareva talvolta anche dello stesso Solipardo, sguardi che la facevano fremere di mal repressa rabbia e d’onta, come se volessero toglierle alcunché di segreto e maggiormente geloso a se stessa, senza che le fosse permesso difendersi; e allora, rispondendo anch’essa con lo sguardo, ma pieno di sdegno e minaccia, quale leonessa incalzata dai cacciatori, quelli che la turbavano subitamente faceva oscillare e smorzava.
Or un giorno, che tornando dalla giostra era rientrata alla reggia, Solipardo sopravvenne a trovarla e, cingendola con un braccio come spesso soleva, le disse:
— Venuto è il momento, o Marfisa, ch’io debbo svelarti cosa che da vicino ti riguarda. Sappi che or è quattro lustri, gli anni che appunto tu conti, trovandomi col mio scudiero sulle spiagge di Lipadusa vidi sballottata dalle onde galleggiare al largo una cesta: a un tratto, come un’onda più forte, la spinse presso alla riva per tosto allontanarla, parvemi che qualcosa vi si movesse e ne venisse ai miei orecchi un debole lamento. Incuriosito, volli vedere che fosse e, cacciato il cavallo nell’acqua, in breve la raggiunsi e trovai che dentro c’era una bambina di pochi giorni nata, più che coperta d’un misero straccio, tutta ignuda, livida per le intemperie e piangente. Mi fu facile prenderla e, come l’ebbi in braccio, con le manine e il volto mi si strinse al petto, come cercando, in quello materno, ristoro delle passate traversie. Mosso a pietà a quell'atto quanto dalle grazie che da essa spiravano, cercai con ogni mezzo di quetarla, chiedendo alla mia rozza natura i sensi più adatti; e di più allora sentendomi mordere l’animo dal desiderio di quel figlio del mio sangue che invano io e la mia sposa avevamo impetrato dal cielo, pensai di portarla a lei perché la tenessimo come tale. La coprii d’un lembo della mia sottoveste che tagliai con la spada e, tenendola in braccio a volta con lo scudiero, continuammo il cammino; finché di tappa in tappa, cibandola di latte a ogni casolare che ci veniva alla vista, felicemente giungemmo in Arba, dove la mia cara Carmosilla mi attendeva. Come vide la bambina, trovando nel caso occorsomi un segno del cielo, essa fu tosto del mio pensiero, e talmente fu presa da lei che la riguardò come se uscita fosse dal suo stesso grembo. Tu eri quella bambina, o Marfisa, e ora puoi dire se Carmosilla ti ebbe altrimenti che figlia e se io fui meno di padre; e se svelo finalmente il tuo vero essere e il mio non è perché voglia toglierti insieme col nome di figlia il mio cuore e quel diritto che allevandoti ti diedi alla corona, ma perché l’uno e l’altra con più legittimo titolo ti appartengano. E’ tempo per l’età che hai, che, lasciata ogni altra cura non confacente a! tuo sesso, tu congiunga la tua fede a quella d’un uomo e, poiché ormai pochi anni mi restano, è mio desiderio che scelto uno sposo di te degno tu sia la sola regina di Arba.
Grandemente turbata ascoltò la fanciulla il discorso di Solipardo; e non volendo che egli scoprisse il suo vero sentimento per il matrimonio e la sua natura, e per togliersi insieme d’impaccio, cosi alfine rispose:
— Doppiamente quel che m’hai detto mi duole, ché pur non avendoli avuti una seconda volta io perdo, in te e la morta Carmosilla, e padre e madre; e ancora perché, con essi, tu vuoi privarmi della cosa ch’ebbi più cara dopo di voi, la mia libertà di donna e guerriera, per darla in soggezione a un uomo. Sempre, per debito di gratitudine, dipendo dalla tua volontà; ma sappi che per solenne giuramento io ho deciso d’essere soltanto di chi mi vinca in campo con l’armi al pugno, e questo voglio mantenere ora maggiormente che non ho più diritto alla corona che prima della tua morte pensi di darmi.
Rise Solipardo ai detti della fanciulla, e a sé più forte attirandola disse:
— Non è con l’armi al pugno, ma le tue grazie e i1 suo lignaggio e l’antico valore che lo sposo che ti destino deve conquistarti. Fin da quando la mia Carmosilla passò di questa vita io te l’ho scelto, e se tu vuoi, o cara Marfisa, come credo, quello sono io stesso.
Non aveva egli ancora finito, che la fanciulla, subitamente ardendo di furore, lo afferrò per la gola e, tratta la spada, di santa ragione si mise a picchiarlo, gridando:
— Benedico il Cielo che non mi sei padre, ché posso farti pentire del tuo sozzo ardire senza mancarti di rispetto. Non sarai certo tu che col tuo carcame contaminerai il mio vergine corpo, e se ancora lo pensi con questa spada te ne torrò per sempre la voglia!
Perduto l’amoroso ardore, il povero Solipardo tentò invano di liberarsi dalle furie di lei; e quando finalmente essa lo lasciò, rattenendo a stento la rabbia e il livore per la sua offesa dignità regale, disse:
— Tuo solò sarà lo scorno dell’affronto che mi fai. Non ti costringerò a nozze che non meriti, ma tornando a esserti padre voglio che pienamente osservi, se fedifraga non sei, il fatto giuramento. Bandirò tosto la giostra e, fosse pure il più vile paltoniere a vincerti, tu dovrai sposarlo, perché sappia il guadagno che fai in cambio di Solipardo.
— Sia come dici — replicò Marfisa — ma non sarà certo Solipardo, o altri come lui, quel paltoniere che dovrà mai avermi.

*
Rientrato nelle sue stanze, ancor pieno di rabbia, Solipardo ordinò che banditori annunziassero tosto che, dovendo Marfisa scegliersi uno sposo, a chi primo la vincesse con l'armi avrebbe dato la sua fede. Grande era la fama della bellezza e del valore della fanciulla, e molti cavalieri, che segretamente ardevano per lei, si presentarono da ogni parte alla giostra, sperando di ottenere si stupenda palma.
Quando, al cenno di Solipardo, Marfisa entrò nel campo, sfavillante nell’armi e nel volto, un mormorio d’ammirazione corse per la folla. Gettando uno sguardo di collera ai cavalieri che cosi apertamente mostravano d’ambirla, essa abbassò la visiera e si apparecchiò alla pugna: il primo ad avanzarsi fu Pulviello dell’Orso, ma subito correndogli sopra con Tasta levata a un solo colpo essa lo sbalzò di sella. Ognuno a sua volta, gli altri ebbero la medesima sorte, e pur c’era tra essi chi in cento battaglie non aveva mai morso la polvere. L’ultimo fu il fiero Mandragone d’Armenia, che alla sola vista incuteva spavento: terribile fu l’urto e con incerta vicenda finché, calandogli un gran fendente, Marfisa non costrinse anche lui a piegare stordito su! collo del cavallo la dura cervice. Un grande silenzio s’era fatto nel campo: risollevando la visiera, la donzella si guardò intorno splendida di furore e minacciosa, come sfidando chi oltre osasse pretendere al suo amore; e quindi, fieramente spronando il cavallo, fra il popolo che si apriva in due ali al suo passaggio si avviò alla reggia.
Sola alfine nelle sue stanze, essa cominciò a svestirsi dell’armi. Cadde dall’elmo, come un rivolo, l'oro del crine incorniciando di ricci il bel volto ancor fremente dell’ardore della battaglia, e sfibbiata la corazza sbocciarono anelanti le verginali rose del petto. Riflessa nello specchio, a lungo restò a mirarsi e, accarezzandosi con la mano madida or il volto or il seno, a poco a poco sentì sciogliersi nell’animo quel groppo di ferocia che l’avvinceva e un diverso senso diffondersi nelle vene. Segretamente tremò, e a un nuovo pensiero dei cavalieri vinti le parve che un’altra natura, che prima sdegnava, sorgesse forzandola dai recessi del suo essere; finché tutta ad essa cedendo a sua stessa insaputa così non proruppe:
— Qual forza mi spinse, al discorso di Solipardo, a fare quel giuramento d’èssere soltanto di chi non potrà mai vincermi? Sia maledetto l’istante che m’uscì dalla bocca, ché ad esso sono per sempre legata, e nessuno, fosse pure il più forte e gentile del mondo, me ne potrà sciogliere, perché la mia fede e il mio valore lo vietano. Ad ogni vittoria, sarò io sconfitta nella mia natura di donna che prima ignoravo ed è la mia sola. Nessun’altra mano, se non la mia, vi scioglierà tremando, o treccie d’oro, per le notti profonde, e v’annoderà nei cari risvegli; e voi rose del petto, fatte per la dolcezza di quei nati che non avrò giammai, avvizzirete senza gioia sotto la dura corazza. Mie sole compagne saranno queste armi che già detesto, e deserta nel mio letto imprecherò alle vittorie che più non ambisco. Chi più infelice di questa Marfisa, che non ha chi le stia alla pari? Al suo paragone mille volte più fortunata è l'ultima delle femminette, che può quando vuole farsi vincere con altre armi dall’uomo che la brama. Oh, sorte crudele! Non avrà baci la mia bocca, a diverse parole, d’ira e minaccia, per sempre costretta; e pur volendo il contrario, dovrò esser nemica di colui che ormai desidero con tutta l’anima.
Così disse; e lagrime di dolore e di dispetto per quell’unico che non l’avrebbe mai vinta caddero dai suoi Occhi.
Francesco Lanza.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 13.01.32

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Citazione: Francesco Lanza, “Marfisa,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/353.