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Titolo: La prefazione di Ugo Ojetti a un volume postumo di F. M. Martini

Autore: Ugo Ojetti

Data: 1932-01-06

Identificatore: 1932_71

Testo: La prefazione di Ugo Ojetti
a un volume postumo di F. M. Martini
Uscirà prossimamente coi tipi della Casa Mondadori un volume postumo di Fausto Maria Martini, « Il silenzio ». che raccoglie gli ultimi scritti del Poeta. Per questo volume Ugo Ojetti ha dettato una prefazione, rievocazione delicata e commossa dell'uomo e dello scrittore. Siamo lieti di dare ai nostri lettori la primizia di queste pagine.
Non so ancora staccare queste pagine da lui che le ha scritte. Ritrovo qui ad ogni riga il suo parlare sommesso, il suo sospirare e sperare, il suo confidarsi e ritrarsi, la sua fiducia e la sua perplessità, il suo bisogno di conforto e insieme il sospetto della pietà e, su tutto, quell’accorata dolcezza che nel suo bel volto sùbito succedeva al baleno d’un sorriso. Sono libri troppo aderenti all’uomo, troppo caldi ancora delle ansie e dei presentimenti di lui perchè a così poca distanza dalla morte non sembrino quasi l’eco della voce che s’allontana nell’ombra. Poi verrà chi giudicherà e sceglierà. Il dovere intanto di chi ha conosciuto e amato Fausto Maria Martini è di far fede della sincerità di lui, della perfetta somiglianza, appunto, tra l’autore e i libri suoi, e dello sforzo con cui d’anno in anno egli affinava l’arte sua per svelare questa sincerità senza ostentarla.
In una stessa pagina di questo libro si legge: «Questa, sì, è la volta che chi scrive vorrebbe non essere veduto da chi legge, tra le righe che gli escono dalla penna... Tutta la mia cura scrivendo è, oggi più che mai, di servirmi di parole le quali offuschino quanto meno possibile la realtà... ». Sembrano due propositi contradittori. Li conciliano la discrezione e la misura dell’arte, e Fausto riusciva a conciliarli ogni giorno meglio, quasi che il suo corpo indolito e affievolito fosse ogni giorno un ostacolo più' tenue tra il cuore e lo scritto; anche tra il presente e il passato. Qui, come in altri libri suoi, fanciullezza ed adolescenza gli tornano davanti agli occhi con un’evidenza che commuove questo bambino di trent’anni, com’egli chiamava se stesso nella prefazione a « Verginità ». Sono esse il cibo prediletto della sua golosa malinconia. Egli non è un uomo d’azione che, maturato dal patimento e dalla fatica, giudica dall’alto l’inquietudine della sua prima età. E’ un poeta che a ritrovare dentro sè, ancora intatto ed attonito, il fanciullo ch’egli è stato, se ne meraviglia come d’un prodigio, e di questa meravìglia fa insieme il suo affanno e il suo orgoglio. Cerca, fruga, confronta: se stesso, suo padre, sua madre, i fratelli, i compagni, la musica di quella sera, la villeggiatura di quell’anno, il latino della scuola, la dedica del primo libro. Silenzio, tutti, perchè egli non vuole perdere un soffio di quei ricordi, un riflesso dei suoi primi dubbi. Quando la memoria non basta a suscitare il sentimento, egli, guardando o ascoltando chi è nato da lui, ecco, ricostruisce per simiglianza la sua pena d’allora. Lo stesso avvenire così gli si trasforma in passato; e la stessa speranza, in sospiro.
Questa continuità della vita, di padre in figlio, consolerebbe un altro, ina accora lui come una condanna alla medesima ambascia per sempre, un carcere da cui non si evade, un peccato originale che le generazioni debbono rassegnate scontare all’infinito. Perchè?
Questo libro è un succedersi di domande. In certe pagine gl’interrogativi sui misteri della vita, sui misteri della morte, si succedono con un crescendo angoscioso, come di chi picchi disperato contro una porta chiusa, di ferro. Apra chi può, perchè di qua si soffoca. (Da Pascoli a Jammes, si sono dati molti padri ai « poeti crepuscolari »; ma s’è dimenticata la voga, allora, di Maeterlinck). Chi può aprire? Chi può rispondere? L’ultima parola nell’ultima pagina di questo libro è Dio. Si direbbe che egli l’ha prima evitata perchè le cento domande in tanto l’attiravano in quanto nessuno rispondeva; i cento dubbi, in quanto restavano insoluti. La fede in Dio risolve tutto, placa tutto, concilia tutto, se è fede da uomini. E Fausto, pur angosciandosene, si compiaceva nel restare fanciullo: che era per lui il modo, non più facile ma più schietto, di restare poeta.
Questo perpetuo interrogare e temere, questo continuo tendere l’orecchio ad ascoltare nel suo profondo gli echi degli echi, finché l’ultima eco giù nel pozzo della memoria sia come un singhiozzo, trasforma infatti la realtà in simbolo, fa traslucide le cose più solide, favolosi i fatti più semplici, e dà alle più belle di queste prose un che di trasognato e d’aspettante che è il loro incanto. Aspettare che cosa? Mai una gioia, mai una certezza, mai un porto sicuro; ovvero, sì, una certezza e un porto solo: la morte. Appena è entrato nella sua casa nuova, nella casa che sarà sua per sempre, una casa comoda e luminosa, aperta su un giardino fiorito, già essa gli fa paura. Moltiplichino la pianista dell’appartamento vicino, l’arpista del piano di sopra le loro musiche fastidiose, « e il frastuono soffochi un altro ritmo che pullula nel cuore del poetino da quando gli si è fìtto in capo quel triste pensiero: di lenti rintocchi tra uno strascicare di passi, per la strada della sua casa nuova ».
Su questa trepida malinconia, il cielo di Roma distende maestoso la sua serenità accrescendo lo sgomento dell’anima senza pace: « Già le ore di queste prime sere dell’estate romana, con quel loro azzurro senza venature, con quel loro prolungarsi infinito per cui ciascuna sembra traboccare di un tempo più vasto di quello che essa possa contenere, con quel loro incurvarsi a guardarti con una sorta di chiaro stupore ogni volta che alzi gli occhi al cielo, ti mettono addosso non so che sgomento. Sgomento e insieme ebrietà, come per un primo sentore d’eterno. Non sai neppur tu che cosa sia; ma se non badi a tenerti ben saldo alla terra che calpesti e a costringere il tuo pensiero entro i confini della realtà che hai sotto gli occhi, in modo che esso non debba divagare a suo piacimento, da un attimo all’altro rischi di sentirti come sottratto a te stesso, sradicato dall’ora che vivi, e scagliato in un giorno tutto nuovo e lontano, senza spazio e senza tempo. È ti accorgi del prodigio solo quando l’aria d’intorno s’è fatta così rada e diversa che non puoi respirarla già più ».
Pagina ammirevole, cuore grande d’un poeta ch’era destinato a purificarsi e a salire ancora, e che qui, appoggiato a questa tavola dove vengo scrivendo di lui, pochi mesi prima di morire m’ha confidato: — Quando penso a quello che ho scritto, m’accorgo di cominciare adesso.
— Poi s’è fermato, ripreso dal dubbio, spaurito dalle sue stesse parole:
— Ma chi mi vuol bene, deve ripetermi spesso che ha fiducia in me. — E mi serrava il braccio con la mano che la guerra gli aveva lasciata sana, e lo sentivo tremare.
Ugo Ojetti.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 06.01.32

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Citazione: Ugo Ojetti, “La prefazione di Ugo Ojetti a un volume postumo di F. M. Martini,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 14 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/327.