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Titolo: Zibaldone

Autore: Giuseppe Ravegnani

Data: 1938-10-26

Identificatore: 1937-38_28

Testo: Zibaldone
Prime pagine. Vi sono libri (libri postumi, funerarii) fatti apposta per renderci sùbito malinconici: d’una malinconia sottile e dolcemente nostalgica, che scava in noi senza scrupoli, suscitando memorie e raffronti e considerazioni. Di solito, codesti libri raccolgono i « primi versi », le « prime prose », più, credo, per amor di curiosità che per amor di conoscenza, poiché le « prime pagine » di uno scrittore o di un poeta, per grande che sia, se niente tolgono alla sua fama, niente (o quasi niente) aggiungono.
In questi casi, cioè quando la lettura smarrisce ogni senso di mistero e di fascino, io, uomo e folla, più non conto, né mi salvo; rimane tutt’al più il critico, lettore per eccellenza disincantato e pronto a naufragare nelle citazioni. E allora si va per le pagine di codesti libri quasi direi a lento passo, aggrondati e silenziosi, deambulando più che leggendo; e ogni pagina ha un amaro sapore di epigrafe, già letta e riletta, chissà dove, chissà quando. Eppure, essendo istintivo il rispetto, e talora la venerazione, vorremmo possedere una memoria pulita, pura, o per lo meno staccata a forza da altre pagine, da altre parole. Invece niente da fare: cattivo è il giuoco dei ricordi, più cattiva l’acutezza che sbriciola i periodi (o i versi), riducendoli a muti scheletri letterari. A libro chiuso, desidereremmo di non averlo aperto mai, o tutt’al più di averlo letto a occhi chiusi, per sentito dire. Così salveremmo almeno un’immagine, che ci era cara, o un’idea, forse inutile, certo errata, ma comunque non avvilita e men che meno mortificata.
Quando, volume primo della Edizione Nazionale, si pubblicarono i Primi versi del Carducci, i compilatori misero avanti le mani, avvertendo che « qualunque opinione si abbia personalmente sulla convenienza e sull’opportunità di pubblicare tutti gli scritti di un autore salito in molta fama, si ha da riconoscere che, quanto ai grandi, oramai nella pratica, ogni pagina, ogni riga di materia non soltanto artistica ma anche biografica, vien presto resa di pubblica ragione, o dagli studiosi seri, o da qualche indiscreto cui càpiti tra le mani ». Dunque indiscrezione, e proprio per quelle carte, che con maggiore e più ostinato puntiglio lo scrittore (o il poeta) aveva nascoste o rifiutate o ricacciate nell’oblio. E non son pagine, almeno a mio parere, utili alla critica, ché non tutti cominciano con un Canto novo o con un’ode All’Italia.
Eppure, ecco qui, in un tometto di Treves, e secondo l’uso malnato, i Versi e prose giovanili della Deledda. Ieri, in Cosima, avevamo letto le ultime pagine; oggi leggiamo le prime. Come a dire, dall’a alla zeta, dall’alba al tramonto. Ma il tramonto è d’oro zecchino; e l’alba non vi aggiunge lume.
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Del linguaggio poetico. Non ci si venga a dire che il linguaggio poetico è quello fissatoci dalla tradizione: immobile e rigido. Le forme, da Aristotile in poi, nulla significano senza gli uomini. E che aggiungere quando codeste forme ebbero nei tempi, in cui nacquero e che le giustificarono, significati polemici e critici? Il continuarle, fuori da ogni necessità spirituale, e soltanto per dar vento a una moda, confessa l’impotenza di un genere letterario dinanzi alle esigenze della storia. Oppure dimostrano in chi le usa di aver poco o niente da dirci. Per conto nostro, essi non sono che dei ventilabri.
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Della poesia. Se noi guardiamo — constatazione curiosa — alla massa dei poeti giovani, ci accorgiamo ch’essi sono degli strani conservatori: conservatori, cioè, non tanto delle forme tradizionali, quanto di quelle della decadenza o per lo meno di un periodo di trapasso. E ciò significa ch’essi, non comprendendo le ragioni di una poesia antidannunziana, e quindi di una poesia praticamente polemica, ne hanno accettato i risultati esteriori: stilistici, formali. Distinguiamo pure la « poesia » dalla « letteratura », la « poesia ». dalla « oratoria », la « poesia » dai « versi », la « poesia » dalla « eloquenza », ma si metta in chiaro una buona volta che la poesia non è nemmeno « lirismo » o « simbolo » o « suggerimento effusivo » o « suggestione » di qualcosa, tanto indeterminata, quanto misteriosa. Per capirci, e per metterci d’accordo, bastano tre versi:
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, ecc. ecc.
oppure:
Sempre caro mi fu quest’ermo cole, E questa siepe, ecc. ecc.
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Corollario. La retorica fu un grosso malanno dell’ultimo ottocento letterario e del primo novecento, contro il quale reagì l’arte pura. Non vorremmo però che a lungo andare si creasse la retorica della controretorica.
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Letture. Ho riletto in questi giorni un bel libro (L'oeuvre de Swinburne), scritto da Paul De Reul, professore all’Università di Brusselle, e pubblicato molti anni fa (1922) dalla Fondation Universitaire de Belgique.
Un libro, si direbbe oggi, di critica puntuale. Il critico non si perde in chiacchiere, in marginature, in digressioni. Punta e s’impunta sui testi; cerca le vie sotterranee della formazione e dell’espressione artistica; divide e sviluppa le parti e il tutto della poesia. Se Swinburne è « le musicien par excellence », ecco il critico percorrere il misterioso cammino della poesia e della musica in alcuni capitoli — Les sons et les rytmes, La suggestion musicale, L'immagination, L'elocution, Les sentiments e les idées, La culture et l’inspiration — che sono la polpa squisita del libro.
Ma non questo volevo dire. Volevo piuttosto dar lode al De Reul per gl’insistenti richiami al nostro D’Annunzio. Infatti un parallelo tra D’Annunzio e Swinburne sarebbe impresa da doversi tentare. Ma da noi il poeta dei Poems and Ballads è poco letto, poco studiato. Ne parlò Chiarini nel 1900; lo tradussero, e non bene, e nell’opere minori, Menasci nel 1890 e Teza nel 1898. D’allora, accenni e richiami di De Lollis, di Praz, di Galletti: accenni e richiami fuggevoli, occasionali, di rimbalzo. Non uno studio, non una biografia, non una traduzione di quell’opere (Atalanta in Calydon, Poems and Ballads, Songs before Sunrise) che son tra le più belle della letteratura inglese.
Io ho letto più di un saggio su D’Annunzio senza che il nome di Swinburne facesse capolino. Tanto varrebbe scrivere di Swinburne, tacendo il nome di un altro italiano: Dante Gabriele Rossetti.
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Prosa e poesia. Con le nuove estetiche i limiti tra poesia e prosa non hanno più quella rigidezza, che era categorica ai tempi dell’ode Alla Regina d’Italia; sicché appare ormai chiaro come i caratteri di un genere letterario, sino a ieri definiti, si difendono oggi soltanto in virtù d’impalcature esterne. Ma siccome la poesia non è, come alcuni vogliono, soltanto pura forma, dovendo il suo linguaggio aderire allo spirito dei tempi in cui esso vive e si sostanzia, non fa meraviglia se un genere letterario o decade o non viene inteso, mentre un altro fiorisce, quando questo in quello sconfina, anzi ne esprime con maggiore respiro e con libertà maggiore la particolare fantasia.
Giuseppe Ravegnani

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 26.10.38

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Citazione: Giuseppe Ravegnani, “Zibaldone,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 09 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/2347.