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Titolo: La stalla di Betlemme

Autore: Francesco Chiesa

Data: 1933-12-27

Identificatore: 1933_547

Testo: La stalla di Betlemme
Vent’anni fa, non ero ancora ispettore, ma già appartenevo all’amministrazione delle cose forestali; e fui mandato nell’alta Valle Camoghina a visitare certi franamenti che ci erano stati segnalati. Ampi lembi di bosco e di prateria, ci si scriveva, già si erano staccati dalla montagna terrosa, e qualche crepaccio si apriva nella zona delle nostre ultime piantagioni: urgente vedere e provvedere.
Era il ventidue dicembre; ed io partii di pessima voglia, lasciando peggio che afflitta la mia giovane moglie, che avevo sposata l’anno stesso, e da parecchie settimane vagheggiava la felicità del nostro primo Natale, e già veniva parando di fronde la nostra casetta. Ma la mia assenza non poteva durare più di un paio di giorni; ad ogni modo, le giurai che, frane o non frane, per la vigilia di Natale al più tardi sarei stato di ritorno.
Pioveva. Mai s’era visto un dicembre cosi: niente freddo, dominato da un vento sciroccale che recava nuvoloni senza fine e rovesciava tant’acqua da sfasciare tutto il globo nonché le montagne marce di Valle Camoghina. L’antivigilia di Natale, ero ancora lassù a esplorare fenditure, concio come un ladro, ma sostenuto dal pensiero: domani mattina parto. Il domani mattina, trovai tutto bianco. Il tempo era mutato durante la notte: nevicava. Ma nevicava com’era piovuto i giorni innanzi: con una furia pazza, senza tregua, da far pensare che Domineddio volesse seppellire nel più breve tempo possibile questa bassa terra venutagli in odio. Quando, a mezza mattina, la diligenza si mise in moto, già ce n’era giù fin quasi alla pancia dei cavalli; e con enorme stento, arresti, urla e legnate, si riuscì ad arrivare a Torre del Mago, che già cominciavano ad accendere i lumi. Escluso che la diligenza potesse proseguire; nessuno, in tutto il borgo, che accettasse di condurmi giù fino allo sbocco della valle, dove passa la ferrovia, con una carrozzella, un carretto, una slitta, un veicolo qualunque, un quadrupede... E ne promisi dei denari: più che non ne avessi. Alla trattoria dov’ero entrato a saziare la fame (non avevo preso cibo dalla mattina) mi consigliarono di mettere il cuore in pace, mi parlarono del buon letto ch’era a mia disposizione, mi fecero sentire buoni odori che preannunziavano un ottimo pranzo di Natale. Io rifiutai, naturalmente; mi lasciai dare del pazzo, e mi misi in cammino senz’altro pensiero che la necessità d’essere a casa mia la notte stessa, ad ogni costo. Nemmeno mi passò per la mente di farmi mettere nel sacco qualche cibo, tanto mi sentivo forte della mia volontà, e sicuro di fare quei dieci chilometri e di giungere alla stazione in tempo utile per il treno delle undici. Accettai, si, una lanterna ed un bastone da alpinista; e partii, ch’era notte fatta, nel turbine accecante.
Subito dopo Torre, la via discende per un buon tratto precipitosa: ciò che mi fu di non piccolo aiuto. Speravo, d’altronde, che nella bassa valle avrei trovato, come di regola, meno neve o magari non più neve affatto. Tutto il contrario: più scendevo, più difficile mi diventava sradicare i piedi, lottare con le ginocchia; e quando la via si rifece pianeggiante, ogni passo mi costava tale fatica che tutto il mio bel coraggio in breve tempo si esaurì. Ficcato fino alla vita in quella diabolica farina (e ne cadeva incessantemente, da togliermi il respiro) smaniai ancora un poco, poi dovetti darmi vinto. Impossibile andare innanzi. Rassegnarsi; tornar su a Torre e di là telegrafare alla moglie...
Tornar su a Torre! Presto detto; ma bastarono due passi in quella direzione per convincermi ch’era egualmente e più difficile risalire. Che fare? Tanto per fare qualche cosa, accesi la lanterna, di cui fin allora non m’ero voluto servire (come se fosse stato un creder meno alla mia fortuna, un sentirmi meno sicuro de’ miei occhi il ricorrere all’aiuto d’una lampada): accesi, e scorsi attraverso il polverio giallognolo un qualche cosa che faceva volume sotto la neve. Capanna? stalla? o magari uno di quei pietroni che, a vederli di notte, possono sembrare quel che si vuole?... No, erano veramente muri, muri e tetto, una di quelle rudimentali costruzioni tutt’aperte da un late, che s’incontrano in montagna, buone per tirarvisi sotto, uomini o bestie, in caso di maltempo. Talvolta sono vecchie cappelle, con una Madonna o un paio di santi dipinti sui muri, chiuse da un cancelletto, da una sbarra, o senza più nulla che le chiuda.
Entrai, felice d’avere almeno trovato un ricovero così: la neve fuori era tanto alta che mi parve di scendere in un mezzo sotterraneo. E mentre picchiavo forte le scarpe in terra e mi scotevo gli abiti, una voce mi giunse dal fondo: — Che tempo, eh?... — Non senza un certo brivido nella schiena, che non era effetto della neve, m’avvicinai con la mia lanterna protesa innanzi, e vidi un ceffo barbuto e il bruno indistinto d’un qualcuno che si muoveva crosciando nello strame li ammucchiato.
— Vieni, — soggiunse — c’è posto anche per le. Loderemo insieme il Signore.
Cosi dicendo, l’individuo si sollevò, ed io potei osservarlo meglio. Era una faccia tutta barba e sopracciglia, che faceva uno strano contrasto con la testa tonsa; due occhiétti ridenti che brillavano come ciliege mature in quella profusione di lana grigia... Già visto di certo, quel mite ceffo da can barbone: ma dove? quando? — Chi sei? — dissi. — E chi vuoi che sia? — rispose con una risata. — Fra Giacinto, sono.
A quel nome, la memoria mi si schiari, e ravvisai il buon vecchio frate laico dei Cappuccini di Monte Gaglio nell’alta valle, incontrato qualche volta per istrada curvo sotto il peso della sua bisaccia... Eccolo lì, il bianco, il gonfio della bisaccia, accovacciata anch’essa nello strame. Quel bruno che mi si confondeva nel colore dello strame, erano maniche e cappuccio, panno fratesco, colore tale e quale di foglie secche... Insomma, lui, Fra Giacinto: con la sua barba, la sua tonaca, il suo sacco pieno d’elemosine e il suo cuore pieno di perfetta letizia.
Non occorsero molte parole per dirci come e perché fossimo li. — Ringraziamo il Signore — conchiuse Fra Giacinto. — È inverno; i campi e i prati hanno bisogno di molta neve per poi tornare verdi quand’è primavera e fare tanti fiori e tanti frutti. Possiamo forse lagnarci noi se un po’ di neve cade anche sulla nostra strada?... Poi, nessuno obbligava il Signore a inspirare agli uomini di mille anni fa: volete costruire una cappella? Ebbene, costruitela qui, dóve vi dico io, poiché qui, fra mille anni, una certa notte due uomini si troveranno in pericolo d'affogare nella neve; ed io non voglio che due uomini muoiano così, in una notte che è la notte del mio santo natale. E questo bel mucchio di foglie? Qualche paesano l’ha tirato insieme col rastrello per portarlo nella sua stalla e farne il letto alle sue bestie. Chi ha detto a quel paesano: non affrettarti; lascia il tuo fogliame ancora un poco nella Cappelletta della Madonna?
Io gli risposi che sì, ero ben disposto a lodare il Signore; ma che una cosa mi teneva in pena: il pensiero della mia sposa, l’angoscia con cui certamente ella mi aspettava. — Anch’io — rispose — dovevo già essere da molte ore nel mio convento. Ma poi avranno pensato: con tutta questa neve, com’è possibile che Fra Giacinto ritorni? Qualche buco ove tener le spalle all’asciutto anche Fra Giacinto l’avrà saputo trovare... Ebbene, vuol che la sua sposa non sia capace di mettere insieme un piccolo pensiero così?
Era passato dal tu al lei: probabile che, a tutta prima, m’avesse preso per un povero vagabondo; né io me ne sentii punto offeso. — Si metta il cuore in pace, caro signore...
Ed io, seguendo il suo consiglio, mi misi il cuore in pace, mi sdraiai sullo strame, mi lasciai coprire con tutto l’altro strame che il buon frate venne raccattando. Poi soffiò nella lanterna e mi si distese accanto; e subito il suo respirare si fece lento e profondo come quand’uno dorme sodo. E anch’io m’addormentai.
Mi risentii, non so quanto tempo dopo: non già che mi svegliassi nettamente. Sentivo, tra il sonno e la veglia, un suono vago, d’una dolcezza infinita, lontano come se venisse da un altro mondo. Poi il fogliame si mise a crosciare; ed io nemmen so se aprissi gli occhi, ma certo vidi l’ombra di Fra Giacinto muoversi sullo sfondo d’un barlume scialbo, e tendere le braccia come se quel beato rombo fossero parole della sua lingua, arrivanti a lui da una sua patria lontana. E anch’io mi sollevai e uscii dalla mia buca, e mi posi accanto al mio compagno, dinanzi all’apertura impiccolita, ad ascoltare le campane di Torre: quel suono che veniva a onde sulla molle neve. E, sentendomi tutto sveglio, mi pareva tuttavia di sognare.
Anche quel che segui, a ripensarlo ora, mi pare un sogno. Fra Giacinto mi posò una mano sulla spalla; ed io, cedendo a quella lieve pressione, m’inginocchiai di fianco a lui, e cantammo insieme. Facevamo silenzio un istante per ascoltare; poi, quando non s’udì più nulla, ci alzammo; e, sentendoci un poco intirizziti, raccogliemmo i fuscelli sparsi per terra, e accendemmo in un angolo lontano dal nostro giaciglio un bel focherello. Alla luce della fiamma, il nostro ricovero diventò un luogo incantato: la stalla di Betlemme, diceva Fra Giacinto, che s’era seduto su d’una pietra presso il fuoco, ed io dirimpetto. Si, la stalla di Betlemme, quale appare nelle Natività dei pittori primitivi: che tutto vi risplende come materia preziosa, ed ogni pagliucola è oro fino, e ogni ragnatela è un brandello della veste degli angioli.
La parete di fondo conservava le sue antiche pitture: santi e sante e, nel mezzo, la Madonna con in braccio il suo divin Bambino. Dall’altra parte, il vàrio dell’entrata appariva chiuso, fino a mezza l’altezza dei pilastri, dalla neve che continuava a cadere, edificando in silenzio la parete d’argento, che presto avrebbe raggiunto il tetto e murati i due uomini nel loro carcere per sempre. E questo è singolare: che, pensando una cosa simile, non me ne veniva il minimo turbamento.
Quando ci fummo riscaldati, Fra Giacinto trasse dalla bisaccia due pugni di castagne, che mettemmo ad abbrustolire sotto le braci, due pugni di noci, che rompemmo con un ciottolo sulla lastra del pavimento. E trovammo che noci e castagne hanno un sapore squisito; e il pensare ch’erano roba data in elemosina non ci turbò punto, tanto ci sentivamo perfettamente e serenamente poveri.
Poi ci acquattammo sotto lo strame; ed io, già mezzo preso dal sonno, pensavo: — Com’è bello stare sdraiati su queste foglie di faggio, che mandano un così buon odore!...
Pensiero ingenuo, ma degno di rispetto, di origine antichissima. Pensava cosi, credo, talvolta, la sera, anche il nostro buon padre Adamo.
Francesco Chiesa.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 27.12.33

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Citazione: Francesco Chiesa, “La stalla di Betlemme,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/1357.