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Titolo: La mercatura

Autore: Riccardo Marchi

Data: 1933-08-09

Identificatore: 1933_349

Testo: La mercatura
Da mio padre appresi l’esercizio della mercatura. Si giravano insieme le borgate; ci si soffermava, nei giorni di mercato, nelle piazze delle città toscane dalle antiche logge affollate di mercanti che giungevano in barroccino o per mezzo della ferrovia: gente ciarliera, schernevole, rude che suggellava un patto di vendita, com’è costume da secoli, con una forte stretta di mano — gomito contro gomito — seguita da una buona bevuta.
Tutto veniva concluso sulla parola.
Era il tempo che i capitani dei bastimenti portavan via le merci senza controllarne il peso: si contentavan di un’occhiata sommaria alla stiva, rendevano legale la polizza di carico tracciando, loro che non sapevano scrivere, una croce con due linee tortuose; e il documento era pieno di « In nome di Dio... »... «a Dio piacendo »... « Dio l’accompagni a salvamento ». Venivan venduti grasce e bestiame; si trattavan granai interi su di un microscopico campione avvolto nella carta gialla, tini di vin vecchio su poche gocce di rubino contenute in fiaschi microscopici che i mediatori grassi ed unti traevano con aria di mistero dalle capaci tasche dei panciotti di frustagno.
Il compratore ne aspirava un po’; ci si intrideva i baffi, succhiellava, risciacquava, contraeva e dilatava i nervi facciali con una mimica da intenditore sapiente di cui si è perduto il seme. Poi sputava e lasciava una macchia vasta sul selciato.
Verso mezzogiorno la folla diradava e i rintocchi delle campane la disperdevano del tutto nelle osterie dove bisognava far forza di gomito e di voce per poter arraffare qualche pietanza dalle mani di un cameriere incapace di destreggiarsi fra tanti avventori sempre nuovi e turbolenti.
Dopo il pasto si riformavano i capannelli nelle vicinanze dei sagrati, alle porte dei negozi o nei crocicchi dove, in antico, furon costruiti i tabernacoli per purificar l’aria dalle voci blasfeme della gente satolla.
Le trattative iniziate il mattina avevano il loro epilogo nell’ora in cui la digestione rende tutti più concifiativi. Ma l’accordo veniva sempre raggiunto in un concerto di voci spesso irose e veementi. Nessun’aria sacra spirava sulla folla campagnola assiepata all’ombra dei palazzi merlati; volti di tufo di gente scesa per la maggioranza dalla Maremma e divenuta paonazza a causa delle eccessive libazioni; membra di travertino presentite dietro i « pilorre » degli abiti e i cotoni greggi delle camicie e, sotto, anime incallite dalla compra-vendita. Nessuna freschezza nel gorgogliare confuso di quelle voci in mezzo alle quali si aumentavano, trasformavano, ricreavano i patrimoni.
Quell’ affresco violento, riproducente uno degli aspetti più primitivi della mercatura, in fondo il meno filisteo, non mi conquideva affatto.
Mio padre diceva che era vecchio e aveva della ruggine nelle ossa e del veleno nel sangue, e che bisognava far presto a prender le redini degli affari. Io non sapevo capacitarmi che si dovesse vender dodici quel che s’era pagato otto, né convincermi sulla necessità di mentire il valore reale delle mercanzie e di farlo con disinvoltura.
Mi sembrava di commettere una cattiva azione e arrossivo ogni qualvolta qualche grosso mercante mi trattava con eccessiva confidenza e rimaneva stupito se, seguendo le istruzioni paterne, interloquivo debolmente nelle trattative. Mi svagavo guadagnandomi dei solenni rabbuffi quando si tornava soli.
Mio padre non sapeva perdonare la mia attonita ammirazione per i ciarlatani che davan lezioni complicate ai campagnoli semplici concionando sui tavoli al centro delle piazze, o per l’abilità con cui i venditori ambulanti di stoffa svolgevano le pezze, le sventagliavano in aria, le tiravan violentemente, uno per parte, senza riuscire ad infrangere quegli stessi cotoni che si sarebbero sfilacciati non appena giunti fra le mani degli incauti compratori. Né poteva supporre che i miei sguardi si rivolgessero anche ad altre cose sulle quali egli non poneva attenzione alcuna.
Il sole, ad esempio, che durante i meriggi accendeva d’ocra i barbacani dei palazzi antichi, o scherzava fra le trifore delle chiese infrangendosi contro un vetro istoriato e riverberando, all’esterno, un’iride tenue ed evanescente come un debole sforzo di comunicare ai mercanti un po’ del sacro stupore che incutono, là dentro, nelle chiese, le fughe delle navate e il silenzio greve stagnante in fondo alle absidi.
Frotte di piccioni volteggiavano al di sopra dei sagrati, torneavano fra le merlature dei palazzi; poi calavano fra le gambe dei campagnoli, vi si aggiravano senza tema delle loro grosse scarpe e piluccavano le grasce seminate durante gli scampionamenti.
Un uomo piccolo, pallido, diverso dal tipo fisico di quei mercanti, marcati tutti dagli stessi segni — l’andatura, i tratti del volto, il modo di porgere me fi avrebbe resi riconoscibili in mezzo alla calca cittadina — richiamava in modo particolare la mia attenzione. Lo ritrovavamo ad ogni mercato. Prendeva posto sotto i loggiati. Svolgeva ed affiggeva alle colonne degli ampi cartoni colorati con sopra una tavoletta dov’era scritto a mano, inchiostro di China e carattere gotico: « Ricerche araldiche ».
Si formavano dei capannelli intorno a lui. Gli occhi dei mercanti sanguigni si affissavano con stupore sempre nuovo davanti a quegli strani cartelli dov’eran raffigurati, quasi sempre su fondo oro o color cielo, i più fantasiosi emblemi gentilizi: armi, cimieri, corazze, alabarde, sigle intrecciate, api d’oro, galli dalle creste color dell’iride, bilance e spade. Spade soprattutto perché, nel pensiero dell’araldista, ciascuno potesse illudersi un giorno d’aver raggiunto un rispettabile limite d’età e di agiatezza in virtù di quella discendenza guerriera e si avviasse al declino con idee di forza cui non aveva mai pensato nell’ora in cui si raggranellano i primi soldi o si commette la prima impostura.
E gli stessi, ch’eran così violenti e cocciuti nel trattar foraggi e bestiame, rivolgevano la parola all’uomo delle ricerche araldiche con una curiosa timidezza, cosi come avrebbero parlato al veterinario quando la mucca rimasta acciucchita mostra i primi segni terribili dell’afta che manderà l’intera stalla in malora.
L’araldista rispondeva alle domande timide tenendo le mani una nell’altra con un’aria da chierico che vuol far penitenze per la salvezza delle anime altrui e si rassegna ad un lavoro difficile: « Ricerca lunga — bofonchiava. — La consultazione dei registri alla vostra lettera dell’alfabeto richiede sempre una settimana almeno. Per facilitarla datemi notizie del vostro nonno e, se ricordate, qualcosa del nonno del vostro nonno... Cercheremo con pazienza, ma deve trattarsi di un ramo antichissimo, forse prima dei tempi di Carlo Magno... Conto che il lavoro sia compiuto per il mercato di fine mese... Il prezzo?... Ecco qua: venti lire per i lavori di ricerca, cinque di diritto fisso, cinque per la pergamena, venti per il pittore. In tutto cinquanta lirette. Dieci di caparra, ed è fatto... ».
— Stordito, stordito, — diceva mio padre stringendomi il braccio fino a farmi urlare di dolore — stai sempre col naso in aria. Hai quasi ventanni e non saresti capace di portare in. fondo un affare da solo. Non ne caveremo niente di buono da te.
Povero padre mio! Non si accorgeva che io stavo imparando molte più cose di quante egli potesse allora supporre.
Ed oggi, da questo groviglio di cose sacre e profane in cui si svolge la vita di tutti, mi domando con qualche malinconia se non son divenuto anch’io, a somiglianza dell’uomo che riempiva le case coloniche di sgargianti emblemi gentilizi, un astuto venditore di illusioni.
Riccardo Marchi.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 09.08.33

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Citazione: Riccardo Marchi, “La mercatura,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/1159.