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Titolo: Calcomanie

Autore: Camillo Sbarbaro

Data: 1933-07-19

Identificatore: 1933_324

Testo: Calcomanie
Avemaria
Sebbene li scorgessi da un po’ venire innanzi per la strada pianeggiante, fu come capitassi loro addosso ad una svolta — tanto erano assorti.
Due, dapprima: due garzoni che avanzavano a paro, pedalando adagio; il maggiore spenzolato sul manubrio, gli occhi a terra, come vi cercasse qualcosa.
Le fanciulle che a piedi li seguivano sino all’ultimo si celarono tenendosi nel solco delle ruote; ma della loro presenza m’avvertì dal principio il canto che coi due s’appressava. Un canto sommesso che solo attraverso il silenzio dell’ora e del luogo mi giungeva e che reggeva tutto lo stelo d’una voce femminile.
Era l’avemaria e tutti e quattro tornavano di giornata. Intorno, la primavera tardiva cedeva sopraffatta ai primi caldi. In cenci pendeva la glicine; gli alberi non avevano fatto in tempo a vestirsi; e già i filari dei piselli eran visitati dalle farfallette bianche dei fiori; e, sul muro di cinta, la pianta del pittosporo, foggiata dal vento, azzardava la sua neve d’odore.
Spuntando dalla breccia della carreggiata, piccoli rosolacci scempi intonavano l’estate: ma sfiatati come galletti non fatti.
Adesso il canto era spicciato fra loro, stupiti come ne apparivano ancora, con la spinta dell’acqua dal guasto stradale. Piedi e ruote trovavano l'equilibrio da sé sul terreno mosso. Al canto essi s’accoglievano turbati dal suo abbrivo eppure solidali; accompagnandolo delle labbra appena tanto da non lasciarlo solo; atteggiati a lui come gente al buio alla luce dall’alto.
Nutriva la voce un contenuto ardore. La fanciulla doveva cantare a test’alta; impegnata in ciò che diceva e quasi in esso smarrita; gli occhi socchiusi che non vedevano fissi innanzi a sé. Procedendo tutti ad una, adagio così, la misura al passo la dava certo il ritardare di lei; che forse in quel pigliar tempo aveva d’istinto cercato scampo all’urgere delle parole.
Piccola e oscura la figuravo; e nella gola, a reggere il canto, visibilmente per me s’ingrossava una vena.
Gente all’osteria
Pare una nidiata di pettirossi. Tre vecchi, tre fratelli: tre capi che si tengono accosto. Pispigliano. Vispi di occhi, ma afoni, l’aprirsi delle bocches più che dar adito ai fiati, sembra — di dove io sono — reclamare rimbeccata.
Hanno il sangue a fior di pelle; e rialza quel vermiglio, poca com’è e abbagliante, la peluria dei cranii e delle gote: più che canizie, peluria appunto di uccellini da nido.
Sono quasi luminosi.
Veh invece quel nonnino, acceso e prepotente come un galletto sulla monta, che siede col piglio di chi cerca d’attaccar briga.
L’arsura lo dissecca; non gli lascia indosso che tendini e cartapecora; è pur essa, si direbbe, che gli accartoccia le orecchie.
Ma il vino, cui per spegnerla ricorre, non fa che invelenirlo: gli spella gli orli degli occhi, gli manda di traverso la lobbia, gli dà, anche adesso, l’aria risentita. Dal fondo di crateri vigilano i fuocherelli degli sguardi, attizzati dalla diffidenza; e il pomo di Adamo balla tra le corde del collo.
Varigotti
Di queste case, più che a case simili a fornaci, ne restano qua e là in Liguria. Hanno a colmo un terrazzo; su cui si stenterebbe a tenersi ritti, rigonfio com’è e tutto avvallamenti.
Non si vede di dove vi si acceda. Quanti soli l’han cotto! Ricorda, veduto dall’alto, la sfoglia, bruna di cottura, della torta pasqualina: con l’orliccio del parapetto.
Tetti che vi figurerebbe uno stilita in orazione o una donna in capelli ad imbiondirsi.
Vi brilla la meliga o vi rosolan reste di scaloppe di mela, poste a seccare pei decotti d’inverno. Su uno, uggiola un cane messo al bando.
Abitazioni saracene che reclamano vicino la sabbia e la palma; ed un anticipo d’Africa si pregusta in questo luccicare di calce e nel vetrino dell’aria.
Oltre l’abitato è il deserto, a giudicare dai polveroni che percorro — i dintorni — maestosi come cumoli di agosto.
Il catechista
Delle sue lezioni in tutto il ripiano del collegio si aveva sentore.
Puntualmente, all'apparire in classe dell’insegnante colossale e ceruleo, tra lui e la scolaresca nasceva una gara a chi avesse più fiato in buzzo.
Iniziata da parte nostra con un mormorio che prendeva via via corpo e proporzioni sempre più minacciose, straripava alla fine in un boato che mutava la scuola in un mare in burrasca.
Boato sotterraneo, coro di ventriloqui: perché le fisonomie restavano naturali e le bocche chiuse.
Nonché interrompersi il catechista, quasi al gioco si eccitasse, pigliava da quel crescendo l’abbrivo per toni sempre più alti, toccando finalmente l’urlo. Ed è giustizia riconoscere che — per quanto incalzato dappresso — i rottami della sua voce galleggiavano sino all’ultimo sui marosi.
La sua corporatura non tenendo in quei limiti, sedeva di sbieco, per liberare dalla strettoia le gambe; e coi gomiti e il petto incombeva sulla cattedra, nell’atto di balzare sulla muta.
Apriva sotto ciò che leggeva la mano ossuta a leggio; e, nell’entusiasmo, vi calava sopra con l’altra.
« Sono pagine stupende! » urlava. Il libro, smanacciato, si squinternar va, volava in fogli.
Lotto clandestino
Col foglio iscritto di nomi, una ad una, il donnone sale sfiatato le scale d’un rione, ad ogni pianerottolo di sotto il grembiule lo cava è con quello in mano parlotta con chi viene ad aprire.
Si tratta per solito della vedova di buona famiglia che vuol restar sconosciuta; costretta dal bisogno a disfarsi del caro ricordo. Dato il valore dell’oggetto, iscriversi per quella inezia al sorteggio, più che fare un’opera di carità, è quasi approfittare della sventura.
Nel calore del fervorino, quando le riesce di avviarlo, con gli occhi e col fiato il donnone cova il malcapitato. Ma sin dallo schiudersi della porta si china insinuante, riduce a un soffio la voce, vi fa schermo con la mano.
A modi cosi innaturali in un trombone di donna, la gente si mette sulla negativa prima ch’essa apra bocca. Chi la ravvisa, che ha già preso la parola, gliela toglie riaccostando la porta.
Paraggi
Il tremolio d’un oliveto, la macchia rossa d’una casa, un’allumacatura in mare bastava perché: « Uh! uh! » e il tedesco balzasse in piedi, si rizzasse quant’era alto, incurante della curva che poteva sbalestrarlo dalla macchina, impugnato da noi per le falde come il bambino che si spenzola troppo alla finestra.
Li per li non poteva dir altro: la esclamazione gli turava la gola. E quando le braccia, partite come razzi, si riabbassavano impotenti, da sé le mani si giungevano e l’uomo restava a mezzo levato, col viso estatico, in una buffa postura di preghiera.
A Paraggi il grido con cui aveva fin li reagito ai pungoli del paesaggio, si placò in un « Ah! » di gioia sazia.
Volle scendere e restò senza voce né gesti: guardava.
Solo atto possibile “restava quello delle casette della riva: tirarsi in disparte a spiare, come di tra le quinte, quella bellezza. « Ah! ».
Era appena risalito e la macchina nel silenzio si staccava, che rieccolo in piedi.
Impugnammo la sua giacca che il tedesco gii era andato a finire col naso nel collo del conducente.
Era stato per segnalarci il colore che, cosi intenso, il mare ha solo li. « Se figgere mano acqua » gridò « tirare su mano tinta! ».
Southampton
Questo cosi famoso porto fa, sul posto, l’effetto d’essere, per un paese come l’Inghilterra, nulla più di un’entrata di servizio. Un qualunque guai; con una stazione ferroviaria che reca — si stenta a crederlo — a Londra.
Southampton annunzia già la flemma inglese. Il movimento glielo danno tutto degli ometti con pipa, i quali d’un dito dirigono qua e là, a seconda del bisogno, dei camioncini su cui seggono per una natica.
Facchini, diremmo: se questa parola si potesse da noi scompagnare dall’idea di indaffarato di gridante di sudaticcio.
Placidi come burocrati al loro tavolino questi han piuttòsto l’aria di reddituari che si dedichino a quello sport meticoloso per ragioni d’igiene.
Camillo Sbarbaro.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 19.07.33

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Citazione: Camillo Sbarbaro, “Calcomanie,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 17 maggio 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/1134.