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Titolo: Le lettere di Ferdinando Martini

Autore: Lorenzo Gigli

Data: 1934-05-09

Identificatore: 1934_217

Testo: Le lettere di Ferdinando Martini
L’epistolario di Ferdinando Martini che esce in questi giorni nelle edizioni Mondadori (Ferdinando Martini: Lettere: 1860-1928 — con 26 tavole e 7 autografi) abbraccia un periodo di circa settant'anni, va da Firenze capitale all’Anno VI dell’Era Fascista. La prima lettera il Martini la scrisse sotto le armi, giovane recluta, al Fattori; l’ultime arrivano ai giorni della rinascita mussoliniana, e, così nelle prime come nell’ultime, lo spirito del Martini appare sempre vigile e pronto, la sua curiosità sempre all’erta, la sua prosa sempre nitida e asciutta, il suo fervore costantemente giovine. Nell’epistolario passano la letteratura italiana e l’arte e il teatro e la politica quasi d’un secolo: Carducci e Giovanni Fattori, Verga e Fanfani, Adelaide Ristori e il Giacosa, Capuana e Nencioni, Ruggero Bonghi e Renato Fucini, Agostino Depretis e Antonio Salandra, D’Annunzio e Pascoli, Ojetti e Forzano. V’è, fin dall’inizio, l’eco delle polemiche e battaglie d’allora; e scrivendo al Fattori di su la paglia della camerata militare il Martini gli chiede notizia del concorso bandito da Bettino Ricasoli, allora reggente il governo della Toscana, per quadri e statue di soggettò patriottico; concorso che fu vinto dallo stesso Fattori con « La battaglia di Magenta » ora nella Galleria d’Arte moderna a Palazzo Pitti. Era fresco il successo della « Cacciata del Duca d’Atene » di Stefano Ussi, sancito dall’adesione della massa all’opera d’un artista non favorito dalla fortuna: e qui il Martini, scrivendone all’amico, si rallegra della grinta che saran costretti a fare, delusi o arrabbiati, tanti bravi signori distinti con un epiteto poco parlamentare. Ma qui entra in gioco l’animus stesso del Martini e insieme quella fortunata vivacità d’espressione che è cosa sua personale e distingue la sua voce nel coro dei bozzettisti toscani. Il Martini non era un artista caldissimo né scavante in profondità ma era un prosatore squisito, conciso e preciso, terso senza affettazioni, semplice senza abbandoni. Padrone di sé, della materia e dello strumento. Che aria circola anche nelle sue lettere! La sua arguzia liquida una situazione con due battute (quando dirigeva il « Fanfulla della Domenica » aveva da fare con un esercito di collaboratori bizzosi e permalosi, e bisogna vedere con quanto garbo se la cava, anche nei confronti di certuni, come Rocco de Zerbi, emeriti piantatori di grane), ma è un’arguzia non mai amara o pungente, sibbene cordiale, bonaria, ispirata ad una sorridente indulgenza verso le debolezze altrui. Quando parla di sé, il tòno può anche diventare confidenziale e tenero, ma gli abbandoni son rari. Si vedano, se mai, le lettere a Piero Puccioni, direttore della « Nazione » e poi vice-presidente della Camera, senatore e via dicendo. Nelle lettere del '63 al Puccioni, Ferdinando Martini racconta a puntate il suo romanzo d’amore, che si chiuse tre anni dopo con le nozze con Giacinta Marescotti, figlia del conte Augusto Marescotti ricordato dal Nencioni in uno de' suoi ritratti. Il conte padre si opponeva al matrimonio, ma i due innamorati la spuntarono, e a spuntarla il Puccioni li aiutò molto coi suoi saggi consigli. Intanto il Martini, entrato nell’insegnamento, ebbe la cattedra di lettere italiane alla Scuola Normale di Vercelli; e nella sua carriera di pedagogo egli ci ha lasciato briose impressioni nel tomo secondo di Confessioni e Ricordi che è lettura quanto mai gustosa e cordiale. Il periodo vercellese gli diede modo tra l’altro di collaudare certe idee dei toscani sul carattere degli italiani del nord non ispirate ad equità se pure spiegabili al calor bianco di quei tempi ancora pieni dei contrasti provocati dal trasporto della capitale.
Ma, tra politica e letteratura, la bilancia, specie nella prima metà delle lettere, scende a vantaggio di questa, e il Martini, in fatto di materia letteraria, è maestro. Il primo nome illustre che ci viene incontro è quello di Giovanni Verga. Per lui il Martini aveva scritto nel Fanfulla un articolo esaltandone l’ingegno possente é difendendo la moralità del romanzo Eva (1873): il Verga gli si mostrò assai grato e di qui nacque un’amicizia che durò quanto la vita. Da mettere in cornice un ammaestramento martiniano che vale tant’oro anche oggi:
« A non entrare nella quistione, Ella ha fatto santamente; il meglio per Lei è scrivere libri che abbiano tutti il pregio della verità come l’Eva. Colle chiacchiere si fa poco; per abbattere tutti i ruderi dell’arte accademica, ci vuol ben altro: bisogna picchiare e picchiar forte cogli esempi e non co' precetti. In Italia oggi regna una gran confusione sul proposito dell’arte e delle lettere; a libri come il suo faranno dapprima l’occhio torvo, poi si assuefaranno poco a poco a guardarli più benignamente; a persuadersi che per moralizzare l’umanità ci sono i pulpiti e le commedie sociali; ad amare la natura com’essa è, non rifatta dagli ortopedici per servire ai gusti delle ragazze da marito e degli adulteri vaganti, frollati per canizie anticipata ».
La formola far bene e poi discutere è vitale. Il Martini direttore del letterario « Fanfulla » l’applica integralmente; e le discussioni che ha sono quasi tutte d'ordine amministrativo e pratico. Nelle lettere ai collaboratori è questione di compensi, di distribuzione della materia, di lunghezza degli articoli, quasi mai di temi. Ma conviene anche dire che i collaboratori si chiamavano Carducci e Chiarini e Nencioni e D’Ancona, tutta gente che i temi sapeva sceglierli da sé e non sbagliava quasi mai. Tirati per i capelli in una polemica, il giornale e il Martini si condussero con onore. Si tratta del dibattito su Tibullo acceso dal De Zerbi in contraddittorio col Carducci. Per tre numeri del giornale la disputa si trascinò mettendo il campo letterario a rumore; e sul più bello il Martini intervenne a troncarla con una frase che diventò famosa: « Via, di Tibullo basta. Passiamo a Properzio ». Ma un intervento, per così dire, privato del Martini merita d’essere raccomandato all’attenzione dei lettori, i quali riconosceranno più d’una buona unghiata nella sollecitudine con cui il direttore del « Fanfulla » si fa incontro al Carducci per consigliargli in via riservata alcuni ritocchi ad un articolo (veda chi vuole l’articolo Dieci anni addietro nel volume 3° delle Opere carducciane). In codesto articolo di cose da ritoccare ce n’era davvero parecchie e il Carducci poi lo riconobbe onestamente; ma dar consigli a Giosuè non era cosa di poco conto e bisogna vedere con quanta delicatezza e insieme con che finezza critica il Martini lo fa. Lodi al Prati e allo Zanella, e passi. Ma al Cavallotti? « Abbi pazienza, caro Giosuè, ma scrivere le Odi barbare e lodare le strofe del Cavallotti gli è un tesser la tela di Penelope. Se non c’è arte senza forma, se non si può scriver bene scrivendo male, con che faccia usciremo a dire bene, noi rigidi censori, di quelle odi bracalone scritte nel gergo della Galleria Vittorio Emanuele? Loda il Tirteo e io chiuderò un occhio, loda l'Alcibiade e io li chiuderò tutt’e due; ma non lodare le odi per carità; o altrimenti la gente smarrirà la strada sulla quale con tanta fatica ci proviamo a sospingerla. Una lode data da te, coll’austerità tua, in un giornale che ha fama di essere ed è di maniche strette, ha una grande importanza; e bisogna pensarci. E trovandoti cosi severo con altri e cosi facile con lui, non temi si dica che il tuo giudizio è ispirato dalla comunanza dei pensieri e degli intenti politici, anziché dal sereno esame e dalla ragione critica? (Segue la citazione d’alcuni versi cavallotteschi). Non so che questi; ma me li ero messi nella memoria, come esempi di versi da chitarrino; ora tu mi vieni a dire che fremono arditi al volo; e io non so che mi pensare: ma per quanto faccia non mi so persuadere d’aver torto ».
Bellissima lettera, forse la più bella dell’epistolario martiniano; e onora tanto chi la scrisse quanto chi la ricevette e non se ne adirò. Ma, come esempio di carteggio tra due nobili spiriti, tutte le lettere del Martini al Carducci andrebbero isolate e citate a suffragare per forza d’esempi più d’una verità letteraria e morale. L’uso di consigliare senza far pesare il consiglio, da signore, il Martini non lo perdette mai: e a pagina 469 del volume c’è una lettera a Gabriele d’Annunzio che valeva veramente la pena di raccogliere.
Vien fuori, da codesto epistolario, un « ritratto d’uomo » di grandezza naturale. Ferdinando Martini v’appare nella sua persona integrale di letterato e d’uomo politico dagli ultimi anni del Risorgimento ad Adua e poi al conflitto europeo. Che fu orgoglio del suo sereno tramonto (si vedano le mirabili lettere ad Antonio Salandra, pagine di storia) l’aver partecipato alle responsabilità di governo nell'ora in cui l’Italia dichiarò la guerra all’Austria e compì l’unità nazionale.
Lorenzo Gigli.

File: PDF, TESTO

Collezione: Diorama 09.05.34

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Citazione: Lorenzo Gigli, “Le lettere di Ferdinando Martini,” Diorama Letterario, ultimo accesso il 20 settembre 2024, https://www.dioramagdp.unito.it/items/show/1582.